Projector è l'album della svolta musicale (e discografica) dei Dark Tranquillity. Il cambio di etichetta da Osmose records a Century Media Records è notevole ai fini della produzione del disco, i suoni infatti sono molto più puliti e definiti degli album precedenti, "The Mind's I" in particolare.

L'album si apre con Freecard, breve intro di piano ed entrano in scena tutti i componenti della band. Mikael Stanne alla voce, come al solito è imponente pur senza essere brutale, a parere dell'autore il più espressivo dei cantanti Death. La canzone prosegue senza lasciare un secondo di pausa agli orecchi, nemmeno i break ci fanno distrarre: melodie chitarristiche si intrecciano perfettamente con la sezione ritmica fenomenale tenuta in piedi dall'immenso Anders Jivarp dietro le pelli e dal bassista Martin Henriksson. Grandissima canzone, spesso riproposta anche in sede live.
Si passa poi ad uno dei più grandi successi della band svedese, ovvero There In. Un muro di chitarre estremamente effettate ci introduce in una canzone mid-tempo in cui a farla da padrone, manco a dirlo, è Mikael Stanne, coadiuvato dal duo di chitarristi Niklas Sundin-Michael Niklasson. Il grandioso ritornello è cantato in pulito, rendendolo vibrante, caldissimo e le chitarre di cui dicevo prima danno il loro meglio per creare un atmosfera rilassata, seppur mai veramente calma. Una delle migliori tracce dell'album. C'è poi UnDo Control: una chitarra che spizzica pochi accordi e batteria con voce femminile a dominare la scena, si scatena poi all'entrata in piazza di Mikael che sbatte lì uno dei ritornelli più orecchiabili dell'album, pezzo immancabile nei live e nella storia dei Dark Tranquillity che comunque non sono alle prime armi con le voci femminili (basti citare la stupenda Insanity's Crescendo, tratta dal precedente "The Mind's I"), il pezzo ha poi un break che rallenta il ritmo del pezzo per poi riprenderlo, canzone geniale.

Auctioned è un pezzo a mio avviso molto sperimentale e perfettamente riuscito: intro di piano accompagnato da chitarra e batteria, cantato prevalentemente in pulito e una tastiera a scandire il tutto come un metronomo in sottofondo, bellissimo l'assolo di basso circa al minuto 3:50 che lancia poi l'assolo di Sundin per un finale quasi commovente. L'uso del piano, da molti aspramente criticato, è fondamentale in questa canzone. Altra grande canzone. To a bitter halt inizia in maniera molto calma: chitarre, basso e batteria a tempi piuttosto blandi. Avviene poi il lancio di chitarra e batteria e la canzone si trasforma in un altro pezzo a-la-Dark Tranquillity, impreziosito dalla performance di Anders Jivarp, che pur senza fare cose pirotecniche scrive una traccia stupenda anche da suonare senza gli altri strumenti. Il ritornello è anche qui cantato in pulito e dopo il break del minuto 3:50 si "incattivisce" per poi tornare alla oscura "tranquillità" di prima.
The Sun Fired Blanks è il pezzo più a-la-The Gallery dell'album. Chitarre violente iniziano la canzone, per poi passare ad un bridge in cui si sente tutto la cassa singola di Jivarp (nei live ha sempre cassa singola con doppio pedale), dopo il ritornello ritorna il tema iniziale che poi si chiude su se stesso a fine canzone, non senza un break stupendo con chitarre che fanno perfettamente il loro lavoro. Bello come al solito il breve solo di basso verso fine canzone.Traccia stupenda.

Nether Novas continua la parte sperimentale dell'album, già iniziata precedentemente con Auctioned. Clean vocals preceduti dal solito intro di basso, chitarra e batteria, sembrerebbe una ballad, ma attenzione: si ricomincia col growl di Mikael (stupendo come ci ha abituati) e chitarroni distorti, c'è poi un fantastico break in cui, anche qui, Anders tira fuori tutta la sua espressività e Mikael viene definitivamente nominato "grande cantante anche in pulito". La canzone si rincorre da sola con continui cambi clean-growl, chitarre pulite-distorte, mid tempos-doppia cassa.
Day To End è la canzone più atipica dell'album, giocata solo su tastiere e voce (pulita) di Mikael all'inizio, in cui poi entrano anche chitarre basso e batteria. Oltre a essere atipica per i DT, è anche la canzone più deprimente, con un testo da brividi e una voce che da un cantante Death come Stanne non ti aspetteresti mai. Fondamentale. A seguire: Dobermann! Spettacolare riff iniziale del duo delle 12 corde, in cui irrompe Mikael e portare carica e rabbia, con un growl talvolta al limite dello scream. Fantastico il ritornello a cui segue il break: arpeggio di chitarra, basso, batteria e clean vocals molto effettate, per poi tornare ad esplodere con la consueta carica, in questo pezzo segnalo soprattutto la bellezza dei suoni dei chitarristi nel riff (e gli stoppati piatto-cassa... che sono la passione dell'autore).

Eccoci arivati alla fine, con il pezzo che considero il migliore dell'album. Chitarre distortissime, armonici a non finire, vocals cattivi e mitici, per passare ad una parte clean vocals piena di tristezza che poi apre una finestra sul più bel muro di chitarre del gruppo: lancio e via, note in successione al minuto 2:20; momenti fenomenali con doppio pedale sotto e clean vocals a rendere tutto estremamente drammatico, grande assolo verso la fine e presa di un tempo sostenuto negli ultimi secondi della canzone. Dal vivo è una traccia indescrivibile, emozioni pure, nient'altro da dire.

Questo "Projector" è stato il primo album Death che ho sentito e mi ha veramente cambiato la vita, al pari di The Gallery il migliore della band. Voto tendente ad infinito, inestimabile.

TWolff. 9

 

Commenti: 3 (Discussione conclusa)
  • #3

    Juicer Reviews (sabato, 27 aprile 2013 06:07)

    This article was in fact precisely what I had been trying to find!

  • #2

    Juicer Review (mercoledì, 24 aprile 2013 06:09)

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  • #1

    ridethestorm (sabato, 10 novembre 2012 00:04)

    ottimo veramente bello

Ci sono generi piuttosto particolari, è il caso dell’ extreme metal e ci sono band, per consenso ricevuto, altrettanto particolari. Quando tante peculiarità vanno tra loro a sommarsi diventa arduo addentrarsi in giudizi, valutazioni. Un gruppo che rispecchia alla perfezione questa situazione, a mio parere, sono proprio i Cradle Of Filth; a mia memoria una delle band che tuttora maggiormente divide critica ed appassionati. E, aggiungo, le critiche quando presenti sono di una ferocia che non può passare inosservata.

Come spesso accade sono portato a pensare che la verità stia a mezza strada, nel senso che se è vero che con i COF non ci troviamo di certo di fronte a dei fenomeni probabilmente lo è altrettanto che non sono neanche un coacervo sciatto ed insipiente come spesso vengono indicati.

Quando penso a certa avanguardia metal di getto richiamo innanzitutto i Meshuggah con la loro tecnica sorprendente e per certi versi pionieristica; posso pensare, per rimanere alla stretta attualità, a Between The Buried And Me o ai Periphery, in ogni caso i Cradle restano un pò indietro, un pò defilati.

Se con ogni probabilità Dusk…and Her Hembrace (1996) ha suggellato il loro migliore momento è vero anche che le prove successive non ne hanno ripetuto i fasti ma, al tempo stesso, non sono neanche tutte da scartare a priori.

Certo quindici anni fa io stesso ipotizzavo un diverso percorso per il gruppo inglese poi invece le cose sono andate in modo deludente anche perchè i “vampiri” ci hanno messo del loro, con un songwriting a tratti debole e una acclarata ripetitività musicale. Aggiungerei pure che forse, una serie di uscite più diluita, avrebbe potuto giovare; in ogni caso, ripeto, prove alterne e non tutte da bocciare.

La congrega di Dani Filth presenta dunque The Manticore and Other Horrors, decimo album nel volgere di diciotto anni, senza contare un live e due compilation (un ruolino di marcia piuttosto serrato); edito per Peaceville Records, si compone di undici brani che si discostano non eccessivamente dal recente repertorio. La produzione è curata, tra gli altri, dal chitarrista Paul Allender e dal batterista ceco Martin “Marthus” Škaroupka. Presentato in anteprima come una raccolta, un’ antologia di storie riferite a mostri, demoni e quant’altro culminanti con Manticore, vero snodo centrale del disco. Come di consueto i testi sono opera del frontman Filth mentre la musica è targata Allender-Škaroupka. Ufficialmente la band si è ridotta,almeno in studio, a questo trio; a completare l’opera vanno citati Daniel James Firth (basso), Lucy Atkins (voce femminile) ed un coro di una dozzina di elementi.

Lavoro non facile da inquadrare perchè si avvicendano brani corposi e di sostanza, dove il combo riesce a tirare fuori il meglio, ad altri dove tende letteralmente a perdere il filo, mescolando tendenze, generi e riverberi che fanno scadere la qualità vistosamente. Un esempio di questo può essere rappresentato da Siding With the Titans che, partita con le migliori intenzioni, finisce per naufragare nel mare della mediocrità, priva di linee nettamente definite.

Con modalità diverse ma dall’esito simile a mio parere risultano The Abhorrent Illicitus, poco convincenti e frammentarie.

Tralasciando i due brani strumentali posti in testa ed in coda, belli ma ingiudicabili perché essenzialmente funzionali allo svolgimento, voglio senz’altro segnalare un’accoppiata formata da For Your Vulgar Delectation, nella quale la componente thrash ben si sposa con trame symphonic e gothic, con ottimi risultati; la già citata Manticore, che si tinge di toni più estremi e dove Filth alterna screaming, growl e clean in una giostra canora incandescente: un bel passaggio symphonic black metal che in definitiva rimane l’abito che meglio riveste il gruppo del Suffolk.

Indicate le cadute ed i picchi, resta poi un pugno di tracce che senza assurgere a capolavori conquistano comunque una larga sufficienza; è il caso di Frost on Her Pillow punteggiata da un riff trascinante della chitarra di Allender e da un’aura epica.

Huge Onyx Wings Behind Despair è realmente un urlo lacerante, disperato, quasi agonizzante, immerso in un pirotecnico arrangiamento che va dagli archi al blast beat sfrenato della batteria.

Pallid Reflection ne è un pò l’evoluzione, il continuo, esasperato ed infinito, ancor più solenne.

Succumb to This invece è l’episodio che più si spinge oltre, senza dubbio il più “extreme” del lotto; questo per intensità, velocità,”cattiveria”, una corsa selvaggia e sfrenata che travolge ogni ostacolo sul proprio cammino.

Non amo fare raffronti, l’ho più volte dichiarato, ma in questo caso voglio fare un’eccezione e dunque credo di poter dire che questo lavoro dei Cradle Of Filth non sia affatto da buttare via, meglio di alcune prove passate. Resta più che probabile che la band il meglio lo abbia già regalato e che quindi abbia trovato il proprio limite difficile da oltrepassare ma The Manticore and Other Horrors non è una prova fallita. Penso che gli vada offerta una chance, non diverrà un pilastro del genere ma è un parziale riscatto rispetto a precedenti prove opache.

Ascoltato e riascoltato per i cradle e' una nuova strada intrapresa ce da dire che 'Illicitus' e 'Succumb To This' sono riletture moderne delle ambientazioni lugubri di 'Midian' mentre i due strumentali ed alcune orchestrazioni difendono la credibilità del recente 'Midnight In The Labyrinth'. personalmente lo apprezzo , questa svolta verso nuovi orizzonti non potra che portare i cradle su nuove sonorita' mai composte e suonate fin ora. voto 8,5

dany75

Commenti: 6 (Discussione conclusa)
  • #6

    ensiferum65 (venerdì, 09 novembre 2012 20:49)

    bellissimo lo ascolto giorno e notte grandi cradle of filth

  • #5

    sonya (giovedì, 08 novembre 2012 11:55)

    in america e' nella top ten, dei dischi piu' venduti, miticiiiiiiiiiiiiiiiii

  • #4

    frank (mercoledì, 07 novembre 2012 22:57)

    grandi cradle...........

  • #3

    eddy (lunedì, 05 novembre 2012 20:41)

    per me e' un bel disco, certo commerciale ma bello

  • #2

    frank (sabato, 03 novembre 2012 20:52)

    in effetti e' commerciale ma carino

  • #1

    Ramses (sabato, 03 novembre 2012 13:16)

    Esagerato! E' commerciale questo si ma è carino, per me è sufficiente. Concordo il voto di Dany75

Stupidità e peccato, errore e lesina 
ci assediano la mente, sfibrano i nostri corpi,
e alimentiamo i nostri bei rimorsi
come un povero nutre i propri insetti.
Son testardi i peccati, deboli i pentimenti;
vendiamo a caro prezzo le nostre confessioni,
e torniamo a pestare allegri il fango
come se un vile pianto ci avesse ripuliti.
Sul cuscino del male Satana Trismegisto
lungamente ci culla e persuade
e l'oro della nostra volontà,
alchimista provetto, manda in fumo...
(Lettera al lettore, 
Les Fleurs du MalCharles Baudelaire)


Sarò del tutto onesto con voi.
Quando ho ascoltato per la prima volta questa nuova fatica dei Therion sono rimasto stranito e per niente convinto.
Un disco di cover totalmente in francese da quella che è probabilmente una delle band più innovative in campo symphonic negli ultimi quindici anni?
Non ci potevo credere. Anche il titolo appariva estremamente banale (trattandosi appunto di cover) e pareva giustificato soltanto dall'idioma utilizzato.
Poi ascolto dopo ascolto mi sono tornate lentamente in mente le lezioni di letteratura del liceo e ho capito o almeno spero in cuor mio di averlo fatto.
Se c'era una cosa che Charles Baudelaire aveva in mente quando decise di pubblicare la raccolta Les Fleurs du Mal era creare scandalo, scuotere le coscienze in modo drastico facendo sobbalzare gli "ipocriti lettori", raccontando storie di una "bassezza" inusuale per quell'epoca e facendo di tutto per attirare le ire della censura, come intitolare la primissima edizione (poi ritirata) Les Lesbiennes.
La sua poesia era una cosa nuova per quella Francia: non si capiva infatti come quelle liriche, scritte in maniera egregia da un punto di vista formale, potessero invece parlare di argomenti più adatti a discussioni tra malviventi nascosti in qualche bettola malfamata.
Chiudendo il cerchio della metafora: se i Therion volevano scuotermi, fammi storcere il naso, lasciarmi presagire un calo di idee o di ispirazione e quant'altro di brutto si potesse pensare prima facie, beh ci erano riusciti e io come un bigotto francese del diciannovesimo secolo ci ero cascato in pieno.

A mia parziale discolpa posso, però, affermare che si tratta per davvero di un lavoro totalmente fuori dagli schemi, anche per un gruppo che ha reso la sperimentazione il suo cavallo di battaglia.
Quello che la band di Christofer Johnsson ha in buona sostanza fatto è stato prendere delle canzoni popolari francesi degli anni sessanta e settanta, conosciute da ampi strati della popolazione per il fatto di essere state alla ribalta nei programmi televisivi dell'epoca (almeno stando a quanto ho potuto capire visionando alcune esibizioni di artiste come France Galle) e riarrangiarle in salsa Therion.
Mi rendo però conto che, considerata la varietà stilistica a cui ci ha abituati la band svedese, la mia frase precedente voglia dire tutto e nulla, ragion per cui cerchiamo di capire quanto sono stati profondi i riarrangiamenti analizzando Les Fleurs du Mal un po' più da vicino.
Basta la primissima parte di Poupée De Cire, Poupée The Son (interpretata in origine dalla cantautrice France Galle ma basata su un testo di Serge Gainsbourg) a capire che l'interpretazione dei Therion è drasticamente diversa dall'essenza dei brani originali, dato che sembra che si siano salvati giusto i testi e la melodia principale.
Il lavoro alle chitarre del duo Johnsson/Vidal ha infatti rivoluzionato l'andamento di ogni pezzo, introducendo ora ritmiche serrate e quadrate che trascinano le canzoni verso velocità che i veri autori non avrebbero mai nemmeno concepito, ora passaggi solisti in sweep picking e in tapping che vanno ad ornare a puntino alcune sezioni che altrimenti avrebbero rischiato di restare un po' più vuote, il tutto insieme ad accompagnamenti arpeggiati in clean con dei leggeri effetti che seguono la melodia senza però risultare troppo invasivi.
La sezione ritmica è portata avanti dal drumming solido di Johan Koleberg, che si prodiga in cavalcate che tengono alta la tensione, condite da filler intensi e vari ottenuti con un uso azzeccato in particolare dei tom e dei timpani.
L'altra anima ritmica della band, Nalle Påhlsson, ci mostra cosa vuol dire creare delle linee di basso complesse ed articolate, piene di slides e passaggi tecnicamente impegnativi che catalizzano l'attenzione degli ascoltatori anche grazie ad un suono medio-basso che buca perfettamente il mix, uscendo in maniera ben distinta in ogni situazione (cosa che a ben pensarci è sempre più rara nelle produzioni odierne).
Dietro ai tasti neri e bianchi l'ospite Mattias Olsson svolge il suo ruolo con un'enfasi altalenante, passando da sezioni in cui le tastiere sono quasi assenti perché impiegate per meri accompagnamenti con lunghi accordi a tappeto, a momenti più diretti ed intricati in cui si combinano suoni che vanno dall'organetto ai più classici archi (tra l'altro molto realistici e ben sintetizzati).
A questo punto rimane solo più il corposo capitolo riguardante le voci; in effetti non è facile parlarvene in maniera omogenea, perché uno dei marchi di fabbrica di casa Therion è sempre stato rappresentato dalle bellissime armonie ottenute dal connubio di timbri ed estensioni così differenti tra di loro, ma così ben mescolati in fase di arrangiamento.
Questa volta le quattro ugole hanno anche dovuto confrontarsi con l'ulteriore difficoltà rappresentata da una lingua come il francese, dotata di regole di pronuncia non così immediate da capire.
Dopo circa quindici secondi di riproduzione vi accorgerete che sì, c'è sempre Lori Lewis e stavolta è più in forma che mai: la soprano americana (che dal 2011 è entrata nella line-up ufficiale) è autrice di una prestazione di altissimo livello; ci troviamo infatti davanti ad una cantante lirica dalla grande personalità e dalle elevate capacità tecniche, che interpreta i pezzi in modo elegante mantenendo una brillantezza e una potenza sbalorditive anche a tonalità altissime.
Per cavalleria vi parlo subito anche della sua collega Linnéa Vikström, che occupa sì un posto un po' più marginale nell'economia del platter, ma che senza dubbio dà il suo degno contributo con una buonissima interpretazione delle parti a lei affidate, anche se, complice il timbro simile, in certi passaggi pare scimmiottare un po' troppo Liv Kristine.
Thomas Vikström ha invece un timbro più particolare rispetto a quello della figlia, caldo e tagliente, ottimamente utilizzato pur senza acrobazie particolari o escursioni di tonalità al limite delle sue capacità; inoltre, pare anche non essere affatto in difficoltà con una lingua così diversa dallo svedese e dall'inglese a cui è sicuramente più abituato.
Snowy Shaw (che tra l'altro dopo il pasticcio con i Dimmu Borgir non è più un membro permanente) è sempre il solito fenomeno in grado di raggiungere tonalità estremamente acute senza apparente sforzo (ascoltare Je N'al Besoin Que De Tendresse per credere) e nel contempo di mantenere una grande efficacia anche quando è chiamato ad armonizzare le sue parti con gli altri a tonalità più basse; insomma un perfetto comprimario per chiudere un reparto ricco ed affiatato.

La qualità complessiva delle canzoni?
E’ altissima: l'ardita scelta di arrangiare pezzi così alieni alla musica metal ha totalmente pagato, producendo una tracklist equilibrata che si dipana tra brani più tirati e momenti più melodici senza mai calare davvero di qualità.
Certo canzoni come Poupée De Cire, Poupée The Son (in entrambe le versioni presenti), Initials B.B o la già citata Je N'al Besoin Que De Tendresse hanno forse una marcia in più, ma vi sfido a trovare un pezzo mal arrangiato e brutto da sentire.

Insomma, i Therion hanno vinto la scommessa, hanno puntato su un disco apparentemente avulso dal resto della loro discografia, auto-producendoselo, non chiedendo nessun aiuto allaNuclear Blast (che resta la loro etichetta) e il risultato ha probabilmente superato le aspettative.
Certo gli standard della registrazione non sono ai soliti livelli garantiti dal budget della casa tedesca, ma comunque anche gli studios a cui si sono affidati i Therion hanno fatto un buon lavoro, per quanto meno rifinito e patinato del solito.
Gli unici appunti che mi sento di fare riguardano i fusti della batteria a cui poteva essere forse dato più corpo e la definizione troppo bassa dei piatti che risultano poco intellegibili.
In effetti in certi pezzi le alte frequenze risultano un po' troppo impastate e sature, cosa che porta anche a delle leggere “fritture” dei coni che non sono state curate adeguatamente in fase di mastering (ne potete sentire nella prima di Poupée De Cire, Poupée The Son); si tratta comunque di dettagli davvero di poco conto.
Tirando le somme: volete un cd in grado di stupirvi, andare oltre le apparenze e probabilmente stimolarvi facendovi cambiare idea ascolto dopo ascolto? 
Buttatevi su Les Fleurs du Mal, non penso che ve ne pentirete. 

TWolff

Voto 8

Commenti: 4 (Discussione conclusa)
  • #4

    J*a*m*S (mercoledì, 07 novembre 2012 21:08)

    sagge parole

  • #3

    TWolff (mercoledì, 07 novembre 2012 17:16)

    Grazie socio.
    I Therion sono grandi. Per queste band non esistono ma nè forse, esiste solo la certezza di ascoltare davvero della buona musica sfornata da persone che la musica la sanno fare nel vero senso della parola.

  • #2

    Dany75 (mercoledì, 07 novembre 2012 17:00)

    complimenti per la recensione concordo con il voto

  • #1

    gisel (mercoledì, 07 novembre 2012 16:49)

    grandi therio a me piace <3

Cari visitatori metallari e affini, inizio questa recensione ricordando Tom Sedotschenko, morto suicida nel 1997. Quest'ultimo è stato il vocalist degli Evereve nei primi due album: Seasons e Stormbirds, due grandi lavori.

Il terzo full lenght album, e cioè Regret, vede l'entrata di Michael Zeissel, attuale cantante tra l'altro.

Sinceramente non saprei da che parte iniziare a parlare di questo totale capolavoro del Gothic Metal. C'è innanzitutto da dire che non viene usata la voce growl, di conseguenza la voce del leader è molto pulita e carismatica (direi azzeccatissima per il tipo di musica). Inoltre predomina l'uso del sintetizzatore, a differenza di tanti altri gruppi metal, infatti, definiscono il loro stile di musica cyber-gothic. Secondo Michael, Evereve sta ad indicare il luogo dove i sogni si possono avverare, ed ha proprio ragione, in quanto questo Stupendo lavoro è davvero l'album da sogno che ogni amante del genere si aspetta di ascoltare.

Altri due componenti vengono sostituiti con questo lavoro, e cioè il batterista e il bassista, i quali fanno subito notare la differenza rispetto ai primi due album. Quindi possiamo affermare che abbiamo di fronte una band quasi riformata al cento per cento, tant'è che solo il chitarrista è rimasto della vecchia band. E, a mio avviso infatti, ne parlo come di due band differenti, Regret, per me, è il primo full lenght album di un quartetto cyb-got. Primo di una trilogia che spaccherà i timpani in due, tre album che rimarranno nella storia dei lavori più ben fatti in questo campo, in sequenza Regret, E-Mania ed E-netics.

Ma iniziamo subito col dire che già l'opener track: Misery's dawn, fa si che si entri in questo mondo di sonorità maestrose e a dir poco cupe, intrappolandoti in una fase di sospensione spirituale con il forte desiderio di continuare questo percorso sino alla fine. Come volevasi dimostrare, la seconda traccia: Fall into oblivion, ti rende già strasicuro di che cosa si va incontro continuando l'ascolto. Basti pensare che soltanto le prime due canzoni sono da capogiro e ti masturbano l'anima a tal punto che l'album sarebbe già completo per i primi dieci minuti. Ma non finisce affatto qua, la band ha voluto proprio esagerare nella propria arte sfornando in sequenza, Kolyma, traccia che ti cattura e ti scruta dentro come frullatore in azione, al punto che non si può fare a meno di seguire il ritmo con movimenti forsennati di godimento, a seguire Redemption, canzone per metà ballad che ti crea uno stato d'animo di malinconia e riflessione, e per finire, proprio nel bel mezzo dell'album, appare lei, la cover, e non parliamo di una cover qualunque, si parla nientemeno che di una canzone degli Animals del 1974, dal titolo The house of the rising son, e come descrivere questa magnificienza di assoluta maestranza e complicità di questi formidabili musicisti? Non ci sono parole, resta il fatto che non si può fare a meno di staccare la spina perchè la soddisfazione ottenuta dopo le prime cinque traccie è troppo grande da sospendere l'ascolto. Abbiamo quindi un seguito solo strumentale, come una piccola pausa, un respiro profondo per riprenderci dallo stato di euforia. Per concludere una canzone forte e colma di rabbia, l'ottava Dies Irae, come già ci fa capire il titolo, è una di quelle tracce così cariche e rabbiose che ti viene davvero voglia di spaccare qualcosa durante l'ascolto, come se ti costringesse a scaricarti di tutta la rabbia di cui sei posseduto. Dopo tale sensazione non poteva mancare una sobria pulita canzone dalle tinte melodiche, come per concludere con dolcezza una carrellata di martellate nei timpani, un modo per riprendersi dallo shock in cui si era precipitati nell'ascolto dell'album.

Ora non saprei proprio cos'altro aggiungere a tutto questo cari metal-fan. Posso solo consigliare vivamente questo album ad amanti del genere e non. Credo che chiunque dovrebbe essere in possesso di tale magnificienza, non possiamo negare l'evidenza, cioè è stupendo è stupendo e basta, senza perderci in futili discussioni ci sono album i quali di fronte ad essi bisogna chinarci e portare devozione, Regret è di sicuro uno di questi, e bisogna essere fieri del fatto che, oltre a menzionare capolavori che fanno parte solo del passato, ancora tutt'oggi ci sono persone che riescono a sfornare capolavori i quali mi auguro in futuro se ne parlerà come si parla ora di Painkiller o Somewhere in time o tanti altri album dei quali basta solo il titolo, senza neanche specificare chi è la band, per far impallidire i metallari. Un saluto a tutti.

(Che dite il voto lo devo scrivere o non c'è n'è bisogno????) Ok lo scrivo comunque: 10. TWOLFF

Commenti: 7 (Discussione conclusa)
  • #7

    samantha (giovedì, 08 novembre 2012 23:48)

    bellissimo disco mi e' piaciuto molto

  • #6

    TWolff (giovedì, 08 novembre 2012 07:11)

    Quell'altro con il tuo nome era un cretino (senza fare nome) e ho provveduto a eliminare il commento.

  • #5

    bonfire (giovedì, 08 novembre 2012 00:01)

    scusate ma mi ci fate capire qualche cosa??

  • #4

    bonfire (martedì, 06 novembre 2012 01:22)

    hey cambia nick che questo e' mio

  • #3

    bonfire (lunedì, 05 novembre 2012 17:21)

    bellissimo da ascoltare sempre con piacere

  • #2

    sonya (giovedì, 01 novembre 2012 21:41)

    sono d'accordo disco interessantissimo

  • #1

    rexor (giovedì, 01 novembre 2012 20:54)

    regret un titolo,una garanzia.capolavoro per eccellenza della scena gotic,gli evereve in questo album,rappresentano senza troppi fronzoli la loro anima gotic,travolgente,pieno di emozioni,carismatico come pochi.disco da avere,assolutamente daccordo con il mio amico twolff,voto 10.by rexor

Un saluto a tutti, oggi scelgo un cd di cui si è gia parlato, ovvero "The Sound Of Madness" degli Shinedown, ma reputo, senza voler offendere nessuno, che la rece fatta in passato e poi cancellata per mitivi tecnici diciamo cosi, era un pò troppo scarna e povera d'informazioni; non rendeva giustizia a questo che considero essere un grandissimo album. Ma procediamo subito all'ascolto del disco.

I cinque di Jacksonville partono subito forte con la canzone più pesante del lotto, il singolo "Devour", di cui sono da segnalare l'interessante sottofondo a mò di marcia militare realizzato da batteria e tastiera ed il cantato heavy di un inedito Brent Smith in versione David Drainman dei Disturbed; potente ed adrenalinica. Il ritmo non scende con la title track "The Sound Of Madness", grazie soprattutto ai buoni riff di chitarra ed al ritornello anthem (inaspettato dagli Shinedown, ma proprio per questo interessante) "I've created the sound of madness / wrote the book of pain / somehow I'm still here / to explain..

Dopo due ottime canzoni hard rock (è già stato fatto il paragone con alcuni brani di "Metallica", effettivamente lo stile è quello) gli Shinedown piazzano la prima ballata dell'album, ed è ancora pollice in alto: "Second Chance", questo è il titolo della canzone, è una ballad intensa e poetica, forse anche con valore personale per il singer, in quanto tratta dei rapporti conflittuali all'interno di una famiglia, problemi a cui non è stato estraneo. Il sound torna heavy con "Cry For Help", buona ma meno riuscita delle opener, ma poco importa: serve solo come brano di passaggio per due canzoni che sono altrettanti piccoli capolavori: "The Crow And The Butterfly", canzone che circolava già nei live antecedenti a questo album, un epicissima ballad magistralmente interpretata da Smith e accompagnata da un bel sottofondo orchestrale di violini, e "If You Only Knew", prima vera e propria love song della band, sicuramente riuscita; il coro, molto romantico, sarebbe un delitto non proporlo in radio in veste di prossima hit: "it's 4:03 and I can't sleep / without you next to me I toss and turn like the sea / if i drown tonight bring me back to life / breath your breath in me, the only thing that i still believe in is you / if you only knew".

La seconda parte dell'album è forse meno riuscita della prima: ad aumentare la lista di Hard Rock songs ci sono "Sin With A Grin", niente di male ma un pò troppo "Load" dei Metallica e "Cyanide Sweet Tooth Suicide", la canzone più veloce della loro discografia, carina, un pò punkeggiante; gli ultimi due brani dell'album sono un flop totale ed un altro piccolo capalavoro: se "Braking Inside" pare (purtroppo, molto purtroppo) una b-side di "All The Right Reasons" dei Nickelback, la conclusiva "Call Me" è un altra bellissima perla dell'album, con il cantato caldo e profondo di Smith accompagnato dal pianoforte; probabilmente un futuro classico della band.

Tirando le conclusioni questo terzo lavoro è, a mio avviso, anche il migliore degli Shinedown, in quanto riescono a mescolare ed accentuare come Dio comanda il loro lato hard rock con quello più soft, cosa che non erano riusciti a fare con i precedenti lavori "Leave A Whisper", giudicato stroppo pesante, e "Us And Them", l'esatto opposto. voto 9.5

dany75

Commenti: 3 (Discussione conclusa)
  • #3

    frank (lunedì, 05 novembre 2012 18:29)

    molto duro , curato piacevole

  • #2

    hammet (sabato, 03 novembre 2012 01:21)

    bel disco lo devo ammettere

  • #1

    eddy (venerdì, 02 novembre 2012 18:03)

    ottimo disco

Parlando degli altoatesini Graveworm, abbiamo più volte sottolineato come l’ensemble sia andato incontro ad un percorso evolutivo lento ma costante, che ha portato la band ad essere credibile e matura aggiungendo di volta in volta dei tasselli al proprio sound. Il nuovo album “Fragments Of Death”, ottava prova in studio di un’attività quasi ventennale, segue la tendenza rivelandosi ancora più spigoloso del suo predecessore, con numerosi riferimenti a un death metal solido e tecnico, sebbene non manchi il consueto contributo delle tastiere di Sabine Mair a irrorare i brani di melodia. Capiamo quanto la band mostri i muscoli e ottime doti esecutive che non scadono mai nell’autocelebrazione già dall’opener “Insomnia”, un brano granitico e quadrato in cui sale sugli scudi Stefan Fiori, protagonista di una prova vocale aggressiva e ispirata. L’opener sembra preludere ad un album che scopre una matrice death metal alla svedese maniera, impressione confermata anche dalla successiva “Only Death In Our Wake”, che tuttavia è limata agli spigoli da una dose costante ma non invasiva di melodia, posta a rendere il tutto più malinconico ed epico. In questo senso sono splendidi gli episodi nella parte centrale del lavoro, a cominciare da “Anxiety”, con numerose parti di voce femminile, “See No Future” e “The Prophecy”, ammorbidite da ariose tastiere, perfetto contro altare alle atmosfere ferali dei pezzi.
L’album non si conclude questa volta con una cover di un brano pop, tendenza del gruppo negli ultimi tempi, ma con una riproposizione di “Awake”, opener dell’opera prima “When Daylight’s Gone”. Il brano è reso più dinamico e moderno e la sua natura vicina all’immaginario black metal sinfonico di quando i nostri compivano i primi passi, si mostra attuale. “Fragments Of Death” è un disco caldamente consigliato, testimonianza di una realtà solida e che non sbaglia un colpo.

Voto 8,5.

TWolff

Commenti: 4 (Discussione conclusa)
  • #4

    rexor (domenica, 11 novembre 2012 20:31)

    trovo che con questo nuovo lavoro,i graveworm,raggiungono il risultato che tanto attendevo.un lavoro compatto massiccio,imponente,e sopratutto orgoglioso,di essere una metal band italiana,grandi.daccordo con mr.twolff,voto 8,5 by rexor

  • #3

    deliverance (domenica, 04 novembre 2012 02:47)

    bel discetto

  • #2

    SLAY (mercoledì, 31 ottobre 2012 22:53)

    bel disco massiccio

  • #1

    tormentor (mercoledì, 31 ottobre 2012 15:32)

    ottimo disco rappresenta un passo avanti nella band

Basterebbe solo leggere la prima frase del booklet, oppure dar  un'occhiata alla foto nella pagina accanto per comprendere di fronte a quale bestia immonda ci troviamo. Il verso in questione è di San Giovanni e recita "Voi siete progenie del diavolo, che è vostro padre, e volete fare i desideri del padre vostro".

Glenn Danzig (indimenticabile voce dei Misfits) ,conclusa l'avventura con i Samhain nel 1986, creò un super-ensemble che avrebbe preso il suo stesso nome. Gli altri membri erano John Christ alla chitarra, Eerie Von (Rosemary's babies) al basso e l'ex DOA, Black Flag e Fear Chuck Biscuits alla batteria.  Il corvino del New Jersey alza il tiro, aumentando ancor di più l'aura malefica intorno alla sua figura fondendo vari stereotipi della storia del rock. 

L'album  in  questione è il loro secondo lavoro, e segue di due anni il disco d'esordio "DANZIG" del 1988. Chi scrive ritiene che i due dischi si equivalgano a tutti gli effetti, anche se "LUCIFUGE"  annovera ballate come Devil's plaything e Blood and tears, nonchè il blues vecchia maniera di I'm the one che lo rendono ancor più prezioso.

Si comincia  in modo fulminante con Long way back from hell. Da subito l'aria è accesa da un riff hard al fulmicotone che in men che non si dica è accelerato da una furia punk. Sembra l'inizio di una track dei Judas Priest, ma basterebbe solo la memorabile entrata di Glenn Danzig a mettere i brividi ad Halford & Co. Un hard-rockabilly trascinante che apre degnamente un album capolavoro. Segue Snake of Christ, e il ritmo si abbassa mentre la ugola si fa più oscura. Molto più pesante e ossessiva rispetto alla precedente, fa uscire allo scoperto l'anima metal del gruppo. Killer wolf è la  prima avvisaglia blues. Si inizia a respirare il Delta e la vocazione di Glenn a vestire i panni mojo (come farà  anche nella classica I'm the the one, addetrandosi in paludi fangose alla Muddy Waters mentre riecheggia il Boom Boom di Hooker). Chi più ne ha più ne metta, qui si sprecano i rimandi all'hard blues granitico del decennio antecedente (ZZ Top,  MC5, Mountain e via dicendo).

In Tired to being alive, Girl e Her black wings Christ ci riporta alla memoria i poderosi riff di chitarra dei vecchi Page e Yommi, mentre un'ombra sciamanica si ammanta su Devil's plaything e Blood and tears, omaggi più che evidenti ai Doors. Glenn si cimenta nella voce baritonale che ricorda il Morrison di Blue sunday, Summer's almost gone e Riders on the storm, per poi esplodere come solo lui sa fare, marcando una netta differenza vocale rispetto al Re Lucertola. Due brani indimenticabili, catartici e commoventi.

777 è uno slide blues capace di  trascinare un convoglio merci per tutto il deserto del Nevada. Con una chitarra da fibrillazioni sembra di assistere ad un assalto al treno tipico del cinema western o di risentire le leggendarie musiche dei film di John Carpenter di Grosso guaio a Chinatown ed Essi vivono. Il disco si chiude con Pain in the world, e siamo di nuovo ai Sabbath, stavolta però ad essere rispolverata è la facciata più atmosferica e psichedelica (come Black Sabbath, Planet Caravan o Hand of Doom), che inculca a chi ascolta un tremendo senso di angoscia.

Un album forte e che lascia il segno. Ne  sconsiglio l'ascolto prima di andare di andare  a dormire, dato il suo orrore sussurrato nelle orecchie. La perfetta reinterpretazione di una decade da parte di gente che nel 1990 puzzava ancora di punk rock, hardcore e trash e si divertiva a rammentare le nenie infantili di una generazione vuota. voto 8

dany75

Commenti: 2 (Discussione conclusa)
  • #2

    tribe (mercoledì, 31 ottobre 2012 00:24)

    bello molto bello a delle parti blus interessanti

  • #1

    fear (lunedì, 29 ottobre 2012 22:42)

    ottimo disco apprezzo molto danzig

Se si dovesse scegliere un solo album che possa rappresentare i Pearl Jam, Vitalogy sarebbe probabilmente la scelta migliore. Uscito in un periodo di grande tensione all’interno della band, è scuramente il più oscuro e sofferto di tutta la discografia. Uscito nel ’94 quando la band era all’apice della fama, Vitalogy, trae ispirazione da un enciclopedia di fine '800 che si proponeva il semplice obiettivo di prolungare la vita dispensando consigli pseudoscientifici come evitare la masturbazione e altre amenità del genere. L’album rifugge la retorica che aleggiava nei lavori precedenti e giunge a una maturità espressiva ormai completa e definitva. In perfetto equilbrio tra la rabbia degli esordi e le contemplazioni della maturità, i Pearl Jam imbastiscono un sound più crudo e dolente rispetto al passato, che trova la sua massima espressione in brani come Last Exit, Not For You e Tremor Christ. Altra scelte significative del loro fastidio nei confronti dello star system (almeno da parte di Vedder) sono quelle di non apporre il nome in copertina e di scegliere come singolo Spin The Black Circle. La scaletta contiene anche delle bellissime ballate rock che diverranno il marchio di fabbrica dei cinque, su tutte spiccano imponenti Corduroy, Nothingman e Immortality. A rendere più straniante e torbida l’atmosfera vi sono, disseminati nella scaletta, alcuni brevi episodi che rasentano il nonsense, vedi Bugs. Quest’ album segna l’ormai definitiva maturazione dei jammers, la perdita dell’innocenza di una band che, grazie al carisma e alla coerenza, continua a rappresentare ad oggi uno dei migliori esempi di quel catalizzatore di passioni ed emozioni che continuiamo a chiamare rock. voto 8

dany75

Commenti: 5 (Discussione conclusa)
  • #5

    oscurastructura (martedì, 30 ottobre 2012 15:03)

    oooooooooooh! cosa vedodo le mie pupille :D

  • #4

    sonya (venerdì, 26 ottobre 2012 01:23)

    preferisco yeld ma bel disco pure questo

  • #3

    ridethestorm (mercoledì, 24 ottobre 2012 22:57)

    bellissimo cd wowwwwwwwwwwwww

  • #2

    Dany75 (mercoledì, 24 ottobre 2012 22:30)

    socio e' un discone

  • #1

    Twolff (mercoledì, 24 ottobre 2012 21:44)

    Beautiful disk!!!! Voto 8,5 socio

Ecco irrompere nei '90 gli AC/DC con The razors edge. Un album che mostra al mondo intero gli australiani ancora in ottima forma; non è infatti un caso che il grandioso Monster rock del '92 è arrivato proprio dopo la pubblicazione di questo disco davvero pregevole. Ecco subito proposta una super Hit condannata a rimanere nella storia della formazione, Thunderstruck. Un lavoro di chitarra scorre veloce, e mentre arrivano basso e batteria il sussurro Thunder, Thunder, Thunder prende forza, e con esso il riffing delle chitarre che, finalmente, esplode lasciando in estasi, l'ascoltatore. Ma Fire your guns non dà nemmeno il tempo di assaporare del tutta l'opener, perché ci trascina in una tipica Hard Rock song, veloce e che mette in mostra un cantato senza pause e maledettamente riuscito del grande Brian. Moneytalks! Che triste verità. Una canzone dalle linee melodiche geniali nel coro da stadio e nel solos che catalizza l'attenzione con il suo ritmo cadenzato. Più cattiva e pericolosa la title track che quando la ascolto di sera da solo, non mi vergogno a dirlo, mi fa paura per le atmosfere tenebrose che nei primi minuti la caratterizzano. Più facile e allegra Mistress for Christmas, che ha come punto di forza il finale travolgente, con in primo piano la chitarra del minuscolo, maiuscolo per quanto riguarda le sue performances, Angus. Quando ascolto Rock your heart out mi viene voglia di saltare da una parte all'altra della stanza, dimenarmi, e alzare il volume dello stereo. Il lavoro di basso mi rapisce ogni volta, mentre il pezzo scorre veloce e senza intoppi. Altra super Hit è Are you ready che non lascia scampo nel riffing possente e nel chorus impreziosito dal grande contributo delle backing vocals. Pesante e granitica per tutta la sua durata Got you by the balls marcia con sonorità grezze e elementari, ma è di sicuro impatto fin dall'inizio. Gli AC/DC cambiano decisamente passo con la più facile e veloce Shot of love che vede gli australiani protagonisti in quello che sanno fare meglio: Hard Rock coinvolgente e semplice, di pregevole fattura. Let's make it mi fa letteralmente impazzire per il breve, semplice, ma intenso solos finale. Goodbye and good riddance to bad luckè l'unica song invece che non mi ha colpito particolarmente; si lascia ascoltare ma ho preferito decisamente di più la scheggia finale If You dare, che dopo un inizio in sordina esplode. Parte il giro di chitarra mentre la voce di Brian stride nelle strofe per sfociare nel coro grandioso che ti invita, ti costringe, a cantarlo con tutto il fiato che hai in corpo. Gli AC/DC sono lassù dalla notte dei tempi e con questo The razors edge dimostrano di volerci stare ancora per un bel po'. Comprate ad occhi chiusi!

 

Tracklist : 
1) Thunderstruck 
2) Fire your guns 
3) Moneytalks 
4) The razors edge 
5) Mistress fro Christmas 
6) Rock your heart out 
7) Are you ready 
8) Got you by the balls 
9) Shot of love 
10) Let's make it 
11) Goodbye and good rinnance to bad luck 
12) If you dare.

 

Note: quest'album, non solo per Thunderstruck ma nel complesso, rappresenta forse il miglior disco che la band, Back in Black a parte, abbia pubblicato dopo la morte di Bon Scott. Quindi è consigliabile darci un ascolto, non ne rimarrete delusi.

 

VOTO 8

TWOLFF 

Commenti: 16 (Discussione conclusa)
  • #16

    J*a*m*S (lunedì, 29 ottobre 2012 22:59)

    grandi acdc

  • #15

    sonya (sabato, 27 ottobre 2012 00:11)

    solito cretino non farci caso

  • #14

    frank (venerdì, 26 ottobre 2012 23:24)

    che succede ragazzi????

  • #13

    Clayman (venerdì, 26 ottobre 2012 20:55)

    Oh ma questo qua è proprio cocciuto di testa? Non ha un minimo di vergogna io non mi sognerei proprio di entrare in un sito dove tutti mi disprezzano. Senti nergal non perdere tempo inutile tanto i tuoi commenti ci fanno un baffo a tutti.

  • #12

    sonya (venerdì, 26 ottobre 2012 20:37)

    non sei tu ha dirmi cosa scrivere o no caro nergal, sfigato di merda, attento a te heheheheh mi sono stufata attento a te

  • #11

    Dany75 (venerdì, 26 ottobre 2012 20:28)

    sono c..zi miei cosa pubblico e i voti , nessuno ha chiesto il tuo parere , te lo dico formalmente, visto la simpatia che hai qui dentro da parte di tutti , non commentare anzi non ci venire proprio qui dentro , la prossima volta prendo provvedimenti di persona, adesso hai scocciato di creare dissapori e casini, spero di essere stato chiaro perche' la prossima volta non saro' cosi amichevole, senza considerare il fatto che questa e' la terza volta che ti avverto.

  • #10

    Twolff (giovedì, 25 ottobre 2012 05:10)

    Sonya sei molto gentile.Ma che vuoi farci c'è chi è buono e c'è chi è cretino....

  • #9

    sonya (mercoledì, 24 ottobre 2012 22:48)

    twollf sei troppo buono con sto citrullo hihihihhi

  • #8

    Dany75 (mercoledì, 24 ottobre 2012 21:46)

    a mia micci venanu i risi, ma lassati u frica fatelo sbraitare tantu e' abituato a sparare cazzate

  • #7

    TWolff (mercoledì, 24 ottobre 2012 18:33)

    Cara Sonya come ti do ragione, infatti io mi sto scompisciando dalle risate. Le teste di Ca......o mi fanno ridere come un matto. Daltronde non è colpa sua se è nato STUPIDO!

  • #6

    HELLHAMMER (mercoledì, 24 ottobre 2012 18:04)

    fatelo tacere sto demente di nergal

  • #5

    sonya (mercoledì, 24 ottobre 2012 15:48)

    ottimo disco grandi ac/dc, leggo ancora commenti da parte del coglione di nergal ahhahaahhah pero' dai diciamo la verita' almeno con la sua ignoranza ci fa ridere ahahahah

  • #4

    oscurastructura (mercoledì, 24 ottobre 2012 15:41)

    hahahahh solito coglione di nergal solo lui puo date la sufficenza a razor hahahhahaha a nergal vai a raccogliere funghi che almeno fai qualche cosa di buono ahahaha

  • #3

    alvin (mercoledì, 24 ottobre 2012 01:53)

    lo apprezzo gran bel disco

  • #2

    SLAY (mercoledì, 24 ottobre 2012 01:22)

    bellissimo album da avere

  • #1

    Dany75 (martedì, 23 ottobre 2012 22:01)

    concordo bellissimo cd intramontabile

“Kyrie”, una intro orchestrale di 13 minuti che sembra volerci catapultare in un’antica cattedrale gotica, ci introduce nel nuovo lavoro dei Lacrimosa, la band svizzera capitanata da Tilo Wolff e dalla sua compagna Anne Nurmi. Già l’ascolto di questo singolo pezzo mi ha rallegrato: questo “Echos” si è dimostrato un album capace di riportare il nome Lacrimosa ad alti livelli.
Orchestrazioni magistrali, produzione eccellente e ispirati pezzi dall’atmosfera decadente in cui gli strumenti classici si fondono perfettamente con le parti metal: “Durch Nacht und Flut”, il single estratto da “Echos”, si rivela una delle tracce migliori unendo una piacevole orecchiabilità goth alla complessità compositiva di questo gruppo, che non sempre è riuscito a trovare il giusto compromesso coi vecchi single, spesso “stonati” rispetto al resto degli album.
La delicata “Sacrifice” sembra unire nella prima parte sonorità in stile tango al già citato sound della band, un esperimento curioso ma assai piacevole da ascoltare per la sua forte carica romantica.
La quarta traccia, “Apart”, è un pezzo prettamente gothic rock cantato da una Anne Nurmi che finalmente si rivela all’altezza, forse perché usa la propria voce secondo le sue migliori caratteristiche, con tonalità basse e quasi sussurrate, capace di esprimere un forte senso di dolcezza. “Ein Hauch von Menschlichkeit” unisce suggestioni elettroniche in stile ambient ai suoni orchestrali, un esperimento che sinceramente mi ha lasciato perplesso: non che si tratti di un pezzo così pessimo, ma mi pare riproporre a tratti quella mancanza di armonia fra le parti che aveva caratterizzato il discutibile “Fassade”.
Più convincente risulta “Eine Nacht in Ewigheit”, intenso pezzo cantato magistralmente da Tilo – la cui voce spesso risulta fastidiosa a chi per la prima volta si accosta a questa band – accompagnato da pianoforte e archi, in cui il cantante elvetico riesce ad esprimersi al meglio riproponendo le vibranti emozioni dei primi album o di “Darkness”, l’inedito contenuto nel doppio live della band.
Davvero affascinante “Malina”, il cui clavicembalo introduttivo sembra riportarci in un ballo nella Vienna di fine Settecento portandovi a tradimento qualche chitarra elettrica diabolicamente rock.
Chiude quest’opera “Die Schreie sind Verstummt”, monumentale e maestoso requiem di dodici minuti per archi, piano e chitarre. Una chiusura perfetta per un album che segna il ritorno dei Lacrimosa agli alti livelli cui avevano abituato i loro supporters, con le sole eccezioni dei mediocri “Inferno” e “Fassade”.
Insomma un lavoro da ascoltare e godersi per bene ad opera di una band che dopo un breve sbandamento ha ritrovato sé stessa, riproponendosi ai livelli del vecchio “Stille” e mostrando di aver ancora molto da dire. Consiglio solo, a chi volesse avvicinarsi per la prima volta ai Lacrimosa, di non lasciarsi sconvolgere troppo dalla voce di Tilo: è effettivamente una voce che non può piacere a tutti, ma ascoltandola attentamente potrete accorgervi che anch’essa può regalare emozioni, in perfetta sintonia con le ottime musiche di questo gruppo unico.

VOTO 9

TWOLFF.

Commenti: 5 (Discussione conclusa)
  • #5

    twolff (venerdì, 26 ottobre 2012 05:30)

    le sonorità metal non sono accentuate come negli altri album, è molto soave e delicato come disco e le composizioni orchestrali secondo me non fanno una piega.

  • #4

    frank (venerdì, 26 ottobre 2012 01:31)

    LO STO ASCOLTANDO PIANO PIANO TW

  • #3

    TWolff (mercoledì, 24 ottobre 2012 18:34)

    Caro frank se apprezzi i Lacrimosa vedrai che non ti deluderà. Ha qualcosa di veramente speciale questo album

  • #2

    frank (mercoledì, 24 ottobre 2012 11:53)

    l'ho comprato da poco ma devo ancora ascoltarlo , speriamo bene :)

  • #1

    eddy (domenica, 21 ottobre 2012 20:32)

    concordo con il critico ottimo lavoro

"El Espíritu del Vino" è il terzo album in studio degli ispanici Héroes del Silencio e come successore del fortunato "Senderos de Traicíon" (uscito tre anni prima) non ha deluso le aspettative sia dal punto di vista delle vendite che da quello compositivo e qualitativo. Questo album ne consoliderà il successo internazionale, raggiungendo la vetta delle classifiche in Spagna, Messico, Germania e Svizzera. Non dimentichiamo inoltre la partecipazione all'importante festival "Rock Am Ring" e che anche MTV si interessò a loro trasmettendone i videoclip e le esibizioni dal vivo.

Innanzitutto presenta delle differenze con gli altri dischi, qui è possibile notare che il sound si fa più duro e complesso, infatti, si passa dall'hard rock di "Sangre Hirviendo", al riffone di "Nuestros Nombres" e alle influenze orientali ed etniche di "Flor de Loto" e "Bendecida"; tutto ciò a sottolineare l'ottimo momento compositivo della band e la loro voglia di sperimentare nuove sonorità fino ad ora inesplorate. Il disco in questione uscì all'inizio del 1993, realizzato sotto la guida sapiente del produttore Phil Manzanera che valorizzò le ottime potenzialità del gruppo.

Come già preannunciato il disco in sé è ambizioso e di lunga durata (oltre i 70 minuti), si inizia con la potente "Nuestros Nombres", magistrale il riff iniziale di Juan Valdivia e la epica e possente voce di Bunbury, il tutto accompagnato da uno splendido ed originale videoclip (mi ricordo ancora quando lo vidi per la prima volta su Videomusic 15 anni fa! Che tempi!). "Los Placeres de la Pobreza" è un buon esempio di rock "massiccio" e veloce che sfocia in un bellissimo assolo con dei cori in sottofondo. Le due tracks seguenti invece rappresentano due classici del rock spagnolo che oltre alla bella musica possiedono delle meravigliose liriche, mi riferisco a "La Herida" e "La Sirena Varada". La prima è a mio avviso il miglior brano dell'album, degli splendidi arpeggi "spagnoleggianti" di chitarra acustica rendono subito l'idea per poi dare spazio alla poetica e suggestiva voce di Enrique, anche qui è da sottolineare l'ottimo assolo del chitarrista Valdivia e gli azzeccatissimi cambi di tempo che rendono il brano abbastanza piacevole per le orecchie dell'ascoltatore. "La Sirena Varada" è un'altra perla degli Héroes ed il metaforico testo la rende abbastanza singolare e affascinante, la prova del singer è del resto della band è di nuovo superlativa! La breve e strumentale "Z" introduce "Culpable" in cui appaiono anche le tastiere, dopo di che ci troveremo ad ascoltare "El Camino del Exceso" e la orientaleggiante "Flor de Loto" (consiglio a tutti di guardare il video!!!) che è dedicata ad una bambina indiana che Enrique adottò a distanza, qui è possibile notare la grande passione del cantante per la cultura dell'India riscontrabile tra l'altro nelle sonorità presenti in essa come ad esempio il suono del sitar all'inizio del brano e alla chitarra "esotica" che ne caratterizza la struttura. Altro pezzo forte è "Sangre Hirviendo", canzone hard rock mozzafiato che i quattro "matadores" eseguono alla perfezione, buona la prestazione di Pedro Andreu dietro le pelli come del resto lo è di tutto il combo nelle sedici tracce dell'album. Una nota un po' dolente è "Tumbas de Sal" inferiore rispetto alla media delle altre songs, a dire il vero non mi è mai piaciuta più di tanto ed il testo lascia un po' a desiderare. Di tutt'altra stoffa è "Bendecida 2" preceduta da un bel coro a cappella, il brano è ispirato all'esperienza del viaggio che la band fece in India e Nepal e non a caso nel testo vengono citati i meravigliosi laghi di Pokhara (seconda città del Nepal come numero di abitanti). Come brano di chiusura abbiamo la malinconica ballata "La Alacena" dove la voce di Enrique raggiunge delle sfaccettature "drammatiche" e quasi "liriche"."El Espíritu del Vino" è consigliato caldamente a chi degli Hèroes del Silencio conosce solo "Entre dos Tierras" ed in linea di massima i brani di "Senderos de Traicíon". Da avere immediatamente!  HEROES PARA SIEMPRE!

Voto 9.TWolff

 

Commenti: 6 (Discussione conclusa)
  • #6

    ridethestorm (mercoledì, 24 ottobre 2012 22:59)

    ascolto da molto gli heroes e non potete capire che bellezza vederli dal vivo

  • #5

    TWolff (mercoledì, 24 ottobre 2012 18:35)

    HAHAHAHAHAHAHAHAHA! OSCURASTRUCTURA questa mi è piaciuta davvero!!!

  • #4

    oscurastructura (mercoledì, 24 ottobre 2012 15:42)

    nergal devi cambiare nome al sito , chiamalo recensireleschifezzechehoio ahahahhahaha

  • #3

    sonya (lunedì, 22 ottobre 2012 17:59)

    bel lavoro

  • #2

    eddy (venerdì, 12 ottobre 2012 20:27)

    bel discaccio ottimo e suonato bene

  • #1

    Dani75 (mercoledì, 10 ottobre 2012 21:29)

    10

 

Versus the World.

È difficile iniziare a parlare di un album tanto importante, ma da qualche parte bisogna pur cominciare, e cominciamo dicendo che Versus the World è un album 100% Amon Amarth. È incredibile come risalti all’istante l’eredità di tale lavoro, dal primo accordo, dal primo maledetto accordo della prima canzone solo una parola mi è saltata in mente: Amon Amarth. È loro quella distorsione, è loro quella batteria martellante. Abbiamo dunque di fronte un album che non rappresenta una svolta epocale nella produzione di questa band: Versus the World è una palese riconferma dell’altissima qualità che ha sempre caratterizzato i loro pezzi. Insomma, solo tecnicamente, questo album vale la pena di essere acquistato, e non solo perché da ogni traccia trasuda l’ormai conclamata maestria nell’uso degli strumenti e della composizione, ma anche perché concettualmente non è stato abbandonato quel sentiero battuto sin da Sorrow throughout the Nine Worlds.

 

È infatti loro prerogativa quel mix abbastanza singolare di tematiche nelle canzoni. Al richiamo prettamente tolkeniano del nome della band, che non evitano di ribadire persino nella title track, gli Amon Amarth affiancano l’estrema brutalità delle tematiche belliche ai cospicui richiami mitologici e all’amaro anticattolicesimo, da sempre vessillo che ha conferito splendore ed epos a decine di band viking metal, dal padre Bathory alle ultime band emergenti.

La partenza è eccellente: “Death in Fire” racchiude in maniera rabbrividente tutte le caratteristiche della band svedese: veloce, scandita da una batteria martellante, con una doppia cassa che si allinea ai battiti del cuore del primo ascolto, con un Johan Hegg in grande forma che ci presenta un growling profondissimo e di gran lunga più espressivo di quello ascoltato in The Crusher, un simbolo di maturità artistica ormai tecnicamente raggiunta. Una rapida scorsa al testo per capire che ancora tutto questo album è una grande marcia di guerra, intrisa di sangue e immersa in pieno nella mitologia nordica. Non si cambia registro in “For the Stabwounds in our Backs”, dove le melodie articolate di Death in Fire lasciano lo spazio a un death più diretto, figlio delle tracce del tramonto di The Crusher, forse l’unica canzone che mantiene un legame così diretto con l’ultimo album prima di questo. Tutto probabilmente per lasciare spazio a una coppia fenomenale di tracce, “Where Silent Gods Stand Guard” e “Versus the World”, un continuum di melodioso e drammatico ricordo del massacro, ora del Ragnarok, e ora del dio dei Cristiani. Nella prima, di enorme impatto epico, le chitarre sorde seguono il percorso solenne del basso, che in entrambe le canzoni entra in risonanza con la batteria, creando dei brevi momenti quasi lirici che esaltano la drammaticità di entrambe le canzoni, che in Versus the World raggiungono quell’aspetto “tribale” che tanti gruppi hanno acquisito in questi ultimi anni (con alterne fortune), Einherjer e Thyrfing su tutti. Alla metà dell’album rintocca solenne “Across the Rainbow Bridge”, un riposo spirituale, sordo, in cui Hegg si cimenta in una prova di growling sostenuto che riesce a caratterizzare da solo quella che forse è la canzone più melodiosa, e tragica, dell’intero album. Il tentativo di concept prosegue con “Down the Slopes of Death”, che raccoglie a piene mani la preparazione del guerriero che dovrà attraversare il ponte Bifrost per gettarlo all’inizio del Ragnarok, con le orecchie assordate dal risuonare del corno di Heimdall, di cui è quasi percepibile il richiamo nella chitarra atona che accompagna l’ascolto della successiva, "Thousand Years of Oppression", ringhio cupo e drammatico come il fragore continuo e lamentoso del corno, come un fischio, un acufene che ricorda che la vera fine del mondo degli déi pagani non è la rinascita del nuovo mondo, come ci insegnano anche gli Einherjer, ma i mille anni di oppressione del “dio che nel nome della misericordia ha versato il nostro sangue”. È la fine, la liberazione, una canzone che ci regala dei momenti drammaticissimi di silenzio e di tumultuosa discesa verso il massacro finale, rappresentato dalla coppia “Bloodshed” e “…and Soon the World will Cease to be”, che ben si pongono come finale e antifinale comuni a molti album di black/death viking. Finale rappresentato da una canzone cruda e cupa come Bloodshed e una più leggera e articolata come l’ultima menzionata, tutte e due comunque sincere nel classico stile Viking brutale che contrassegna ormai la produzione della grande band svedese.

 

 

Cosa dire alla fine di questa estenuante immersione in Versus the World…?

Gli Amon Amarth si sono riconfermati maestri nell’arte del Viking e sapienti dosatori delle loro possibilità, creando delle misture alchemiche di velocità e brutalità death tormentate da tematiche degne del genere e teorie interessanti.  voto 9,5 by rexor

Commenti: 7 (Discussione conclusa)
  • #7

    darkmoon (venerdì, 09 novembre 2012 01:05)

    adoro questo cd

  • #6

    kassandra (martedì, 30 ottobre 2012 18:27)

    bel disconeeeeeeeeeeeeeeee

  • #5

    SLAY (sabato, 20 ottobre 2012 00:18)

    OTTIMO DISCO SONO D 'CCCCCCORDISSIMO PER IL VOTO

  • #4

    bonfire (mercoledì, 17 ottobre 2012 09:09)

    bellissimo forse il migliore della band

  • #3

    alvin (sabato, 13 ottobre 2012 01:45)

    bel cd molto viking

  • #2

    quorthon (venerdì, 12 ottobre 2012 02:21)

    great album yea!!

  • #1

    Dani75 (mercoledì, 10 ottobre 2012 23:39)

    concordo grande lavoro

Chi l'avrebbe mai detto che questi teutonici thrasher di Essen sarebbero stati ancora in giro a 30 anni dalla loro formazione nel lontano 1982? E invece i Kreator, senza peraltro battere ciglio o mostrare segni di cedimento, continuano indefessi e concentrati. Come, a onor del vero, molte band metalliche dell'epoca: come se i primi anni Ottanta fossero una stagione di nascite di veri e propri highlander della scena heavy.
La band capitanata da Mille Petrozza, con questo "Phantom antichrist", giunge al tredicesimo disco in studio dal 1985 a oggi (se ci fate caso, tra il 2011 e il 2012 sono diverse le band hard ed heavy che hanno toccato questo medesimo traguardo, a testimonianza di quanto si diceva qualche riga più su) e, per usare una locuzione molto romanesca, dimostra che "la pompa gli regge ancora". Insomma, niente bypass, catetere, protesi e deambulatore per questi signori, ma piuttosto i segni di una voglia di cambiamento, anche solo estemporanea. Per fortuna non è stato limato troppo (del resto chi li vorrebbe in versione folk acustico o ambient? Sarebbe un suicidio), ma è palese una vena più melodica e strettamente collusa con l'ispirazione classic metal. Una scelta piuttosto coraggiosa, che potrebbe anche rivelarsi avventata.
Se la prima traccia (saltiamo l'intro d'atmosfera intitolata "Mars Mantra") - quella da cui è tratto il titolo del disco - è un classico attacco all'arma bianca in stile thrash tedesco, con tutti i sacri crismi, il taglio cambia in maniera molto evidente nei pezzi a seguire; fino a giungere a quella che forse è la chiave di lettura per "Phantom antichrist": "From Flood Into Fire". Qui i Kreator scoprono le carte senza possibilità di errore, abbandonandosi a un brano che è in pratica un florilegio di power metal... e improvvisamente, come se ci trovassimo in un vecchio adventure game testuale per il Commodore 64, il dilemma compare sul display del nostro cervello: "Stai ascoltando i Kreator che fanno power metal: premi (1) per continuare oppure (2) per staccare e mettere su un album a caso dei Sodom" perche' i kreator oggi come oggi fanno cagare, solita musica, solita pappardella, ma con molte influenze che imbastardiscono quello che e' stato il monopolio kreator che ci ha accompagnati in questi anni, il risultato?... un prodotto che lo ascolti perche' e' un cd dei Kreator e poi ci giochi a frisbi,ma il solo vederlo tra i tuoi cd ti da la nausea.
Francamente, non esiste una risposta esatta o più conveniente; se l'idea di assistere a questa mutazione non radicale, ma percepibilissima, vi disturba gravemente allora è sicuro che non apprezzerete "Phantom antichrist" e dovrete cercare rifugio nella produzione passata della band o dei colleghi. Se invece siete stuzzicati da questa inaspettata liaison, avrete modo di sondare come Mille Petrozza e fidi compari siano in grado di destreggiarsi in maniera più che convincente nelle frazioni power metal e melodiche; certo, non sono i Rage, ma forse è anche meglio così se fosse il contrario saremmo difronte a un blocco di dimensioni paurose.
Questi "nuovi" Kreator sono davvero imbarazzanti e sfornano una decina di canzoni cotte un po troppo, articolate e anche violente come ci si aspetta da loro - a tratti; il problema è che disorientano, come se avessero fatto un esperimento culinario che non ci aspettavamo e ci trovassimo a degustare un bel piatto di chili e Nutella... buoni entrambi, ma assieme richiedono un po' di preparazione psicologica.
La violenza, la rabbia e il vetriolo dell'anima ci sono ancora, ma in questo frangente la band li diluisce - o meglio, li inframmezza - con soluzioni tipiche di un genere che non le è mai appartenuto e che, anche se affrontato dignitosamente, spiazza. Prendiamo dunque "Phantom antichrist" per un divertissemento, una di quelle cosa un po' pazze che spesso trovano spazio nelle discografie degli artisti più longevi. Ma speriamo che, col prossimo, il dottor Petrozza rispolveri la sua "flag of hate" e la faccia sventolare alta, senza divagare troppo.voto 4
Dani75

Commenti: 6 (Discussione conclusa)
  • #6

    black heart (martedì, 16 ottobre 2012 22:12)

    hey nergal pigliatela nel culo scemo di merda

  • #5

    ensiferum65 (lunedì, 15 ottobre 2012 21:26)

    che cd del cazzo

  • #4

    rexor (mercoledì, 10 ottobre 2012 23:08)

    sto cazzo di nergal non ha niente da fare?a commentare nel nostro sito,ma chi ti caga,ma lo vuoi capire che non sei gradito o no .Fatti gli affari tuoi,non scocciare con le tue fregnate.

  • #3

    J*a*m*S (mercoledì, 10 ottobre 2012 10:41)

    MA LASCIALO STARE DANI75 E SOLO UN POVERO CRETINO VATTENE A CAGARE NERGAL, VAI A RACCOGLIERE PISELLI CHE E' MEGLIO

  • #2

    Dany75 (mercoledì, 10 ottobre 2012 09:06)

    a Nergal ma vai a scartavetrare da qualche altra parte che qui dentro non sei gradito ne sono gradite le tue sparate del c,,,zo,

  • #1

    ErPirla (mercoledì, 10 ottobre 2012 05:28)

    A Nergal der cazzo sto cd è na vera piattola non capisci proprio un cazzo de musica. Vattene a zappà a terra va.

Commenti: 5 (Discussione conclusa)
  • #5

    bonfire (mercoledì, 10 ottobre 2012 18:08)

    i kreator potevano fare meglio, cmq per me e' un mediocre cd

  • #4

    Panzer (mercoledì, 10 ottobre 2012 18:06)

    A Nergal ma vaffan....................Sto cretino rompe le scatole e si crede pure un esperto metallaro. Ahahaha. Mi devo segnare il nome del suo sito che lo devo sconsigliare a tutti i metaller che conosco.Viva horrorscape

  • #3

    quorthon (mercoledì, 10 ottobre 2012 15:16)

    FUCK NERGAL VERY CRAZY MAN AHAHAHAHAHHAH

  • #2

    bathorysoul (mercoledì, 10 ottobre 2012 11:54)

    ancora rompe i coglioni questo ma diffidatelo sto demente di nergal

  • #1

    TWolff (mercoledì, 10 ottobre 2012 05:34)

    Dany75 questo commento lo devi proprio leggere è troppo comico.ahahahaha


Midian, ventre della madre degli incubi. Città sotterranea rifugio di mostri e scherzi della natura. Il parto malato della mente di Clive Barker, noto romanziere americano, fa da sfondo ed ispirazione al quinto LP di Dani Filth e compagni. Attingendo a piene mani dall’opera letteraria e dal rispettivo adattamento cinematografico, il disco mette innanzitutto in musica il mito creato dallo scrittore, ma trova spazio anche per i grandi antichi di H. P. Lovecraft, storie di fantasmi inglesi, moderne depravazioni, struggenti drammi amorosi e reminiscenze di diabolica fede.  Il disco fa la scalate delle classifiche e l’unico video estratto va a rotazione sulle varie incarnazioni di MTV ed affini. 

“At The Gates Of Midian”, consueta intro strumentale, ci accompagna con incedere solenne ma per nulla sinistro, fin sulla soglia di un mondo fatto di mostruosità. Come per la dannazione descritta nel lontano “Dusk... And Her Embrace”, anche qui non sembra esserci paura, ma solo rispetto. Una riflessione, questa, sulla quale dovremo tornare più avanti. Direttamente dalle pagine del grande scrittore Howard Phillips Lovecraft, “Cthulhu Dawn” ci piomba addosso con tutta la sua potenza. È avvenuta una profonda trasformazione nel modo di fare musica del gruppo, la violenza ha assunto una forma e la ricerca della melodia sembra aver finalmente trovato un perfetto accordo con la potenza di fuoco. Il suono, certamente anche per merito dell’ottima produzione, sembra assumere una terza dimensione rendendo tangibile l’orrore innominabile per eccellenza. “Saffron's Curse” trasuda lo stesso romantico marchio di fabbrica della band, che mai si è rivelato tanto melodico. Di certo uno dei punti più alti del disco, l’orchestrazione tiene insieme una struttura terribilmente complessa fatta di riff ruvidi e veloci, linee vocali granitiche (non c’è un altro modo per definirle), cori melodiosi e intermezzi recitati. Uno spirito sofferto pervade tutto il brano facendosi furioso solo sul finale. “Death Magick For Adepts” è il genere di brano che non andrebbe proprio preso sul serio. Un intermezzo spassoso come i pagliacci di un circo, lascia il tempo che trova: “Come cabin fever, sodomy on the bounty, Prey to phallus seas…”. “Lord Abortion” vale la pena ricordarla solo per due fattori salienti. Il primo è l’improbabile popolarità del pezzo; tripudio di erotismo perverso e megalomania, si compone di linee musicali assolutamente dimenticabili ed immagini che vanno dalla necrofilia alla masturbazione. Il secondo aspetto, fortunatamente molto più apprezzabile, è la performance vocale di Dani Filth. Le variazioni si sprecano dando finalmente prova di una eclettismo ed espressività più uniche che rare. Bisogna sottolineare che proprio questa peculiarità è stata oggetto di discussione per molti detrattori. Lasciandosi alle spalle le facilonerie di composizione dei due pezzi precedenti “Amore E Morte” riporta il disco allo spessore iniziale. Più semplice e diretta di “Saffron's Curse”, si tratta di un brano dai richiami heavy. I suoni sono sempre molto scuri, estremamente sgravati e il lavoro alle pelli di Adrian Erlandsson riesce a dare il giusto contrappunto drammatico. Per la prima volta è il romanticismo stesso alla base del testo ed il risultato è eccellente. Dopo l’intermezzo di “Creatures That Kissed In Cold Mirrors” si arriva al secondo vero highlight del disco. “Her Ghost In The Fog” apre su tragiche note di pianoforte ed archi, subito seguiti dalle chitarre distorte e la batteria serrata. Una voce narrante ci introduce nel racconto di un amore che si rifiuta di finire con la morte. Una morte ingiusta ed uno spirito inquieto. Ci sono tutti gli ingredienti del caso per una perfetta ghost story all’inglese. La chitarra di Allender, assente dalla band dai tempi del primo disco, si sposa perfettamente con le tastiere di Powell. La voce prima profondissima poi disperata e tagliente di Filth si accosta alle aree melodiche della corista Sarah Jezebel Deva in un sodalizio mai cosi seducente. Avvicinandosi alla fine pare di avvertire un generale ispessimento dei temi e delle composizioni. “Tearing The Veil From Grace” è proprio quello che ci si sarebbe aspettato dalla band a questo punto della sua evoluzione artistica. Un componimento epico e romantico, ingigantito da una teatralità ultra-rodata. Ma non pensiate che sia tutto qui: c’è dell’invenzione, cambi di rotta e uno spazio ritagliato da ogni elemento della band come mai prima era successo. Le tastiere sono onnipresenti e le chitarre dai toni heavy metal si scambiano complici consensi con gli intermezzi recitati. Come sempre i cori completano l’opera. Lo stesso vale per “Tortured Soul Asylum” con il valore aggiunto di un concept di grande spessore. Il pezzo ci riporta infine a Midian, la città dei reietti, dove la mostruosità è accolta come un dono, il diverso non deve temere alcun male e la sua singolarità è celebrata anziché additata.
Midian unisce la violenza degli esordi del five-pieces inglese a tutta l'esperienza accumulata in tanti anni di lavoro, i cinque vampiri inglesi ci hanno stupito ancora!!!.

Sembra veramente di trovarsi davanti ai cancelli dell'anticamera degli inferi.

Ora siamo pronti per il delirio, per spaccare tutto, per portare , e convertire alla voce della sapienza e della dannazione tutti i quelli che amano rottin crist, dimmu borgir (ultimi lavori), abortus, e schifezze varie.
Poi prendere tutti i cantanti che si fingano false rock-star, spezzargli il dito pollice, indice e anulare in modo da fargli avere sempre le corna del metal elevate al cielo. Ecco la funzione del disco, che è buio, micidiale, possente, autarchico, tenebroso, cupo e composto da tutto ciò che può fare paura a tutti i cantanti inesperti che occupano la maggior delle colonnine dove vengono riposti i cd comprati giusto perche' sono in versione limitata o cazzate del genere , vedi nevermore, kreator( ultimo lavoro) e altre stronzate del genere.

Il mondo ha sempre più bisogno di questa musica ai giorni di oggi!!!

Non consigliato ai deboli di cuore.

Un disco consigliato per chi vuole ascoltare roba forte. Forse il piu' duro  ke i CoF abbiano mai fatto. pieno di violenza e di una batteria suonata tanto forte da spaccarne le bacchette e farle volare negli occhi del pubblico durante un concerto.

 

Ora, saluto tutti i metallari e consiglio vivamente questo disco degli immortali CRADLE OF FILTH!!! voto 10

Dany75

Commenti: 4 (Discussione conclusa)
  • #4

    alvin (mercoledì, 24 ottobre 2012 01:54)

    10000000000000000000000000000000000

  • #3

    bathorysoul (mercoledì, 10 ottobre 2012 11:55)

    bel disco molto duro

  • #2

    oscurastructura (martedì, 09 ottobre 2012 23:16)

    ottimo black metal, suonato magistralmente, niente a che fare con i capolavori precedenti ma mitico.

  • #1

    rexor (martedì, 09 ottobre 2012 21:38)

    disco fantastico,forse il piu potente dei cradle.amo molto questo album e sono daccordo con il signor dany 75

Ohhh finalmente recensisco uno dei miei generi prediletti .

Che dire sui Def Leppard che non è già stato detto? Che sono uno dei gruppi di punta del British Hard Rock? Che sono uno di quei gruppi capaci di sperimentare in diversi campi senza mai, però, cambiare pelle? Che hanno un batterista con una forza di volontà talmente forte da andare avanti a suonare privo di un braccio? (Uno dei più grandi esempi viventi di musicista, tenace e professionale).In effetti l'albun qui recensito è proprio quello che ha introdotto lo speciale Drum Kit semi-elettronico che ha permesso a Rick Allen di poter continuare a suonare... Si sente il sound un po' artificiale di un rullante non proprio perfetto ma è anche vero, che con il sound dei Def, sta proprio bene: semplice, incisivo, energico e chi più ne ha più ne metta!

Che dire del disco? Un puro concentrato di Energia (sì con la E maiuscola), una successione di potenziali hit da classifica ottantiani che si susseguono uno dopo l'altro. Che dire della tecnica dei musicisti? Eccelsa, assolo di chitarra potenti e anche abbastanza tamarri (non fraintendetemi nel senso anni 80, non certo truzzi!), basso serrato e pulsante che segue bene le battute del buon vecchio Allen, dietro alle pelli, che mena fendenti anche essendo naturalmente un po' limitato nei movimenti; la voce si adatta alla perfezione a pezzi del calibro di "Pour Some Sugar On Me" (tormentone molto sottovalutato), "Armageddon It", (che si può definire un inno), "Don't Shoot Shotgun" (in cui si notano molto le influenze che i canguri del Rock, gli AC/DC, abbiano avuto su TUTTI i gruppi Hard Rock della storia) e "Rocket" (con quel suo ritornello a mo' di coro da stadio che può far cantare chiunque).

La cosa che più mi chiedo è: Joe Elliot dove è finita la tua voce? O meglio come hai fatto a perderla visto che in occasione del Gods 2006 sei risultato sottotono dal primo pezzo alla fine? Naturalmente gli eccessi di un'epoca che non ritornerà più si fanno sentire sul fisico di una persona e c'è da dire anche, con rancore, che si sta spegnendo una di quelle voci da ricordare, come si stanno spegnendo tutte quelle che, anni addietro, hanno fatto emozionare, ballare e pogare un gran numero di veri appassionati di vera musica.

Tornando al disco, un'altra cosa che posso dire è che questo Capolavoro, secondo me, è la colonna sonora adatta per il divertimento più sfrenato (anche comprendente quegli eccessi di cui accennavo prima) o può anche essere "utilizzato" per una cantata a squarciagola e scacciapensieri. Bisogna anche tenere conto della resa live di questi pezzi, fenomenali da cantare e molto divertenti da riprodurre magari con il proprio gruppo amatoriale.

So di non avere dato il massimo in questa rece e so di essere stato di parte; in effetti non è bello recensire i propri cd preferiti ma, essendo poco esperto, un esperimento non fa male!!!voto 9

Dani75

Commenti: 3 (Discussione conclusa)
  • #3

    Dany75 (mercoledì, 24 ottobre 2012 21:47)

    di nome forse ahahahahahhaah

  • #2

    TWolff (giovedì, 18 ottobre 2012 20:48)

    Album storico. Uno dei più belli della scena hard rock. A mio parere ogni metallaro dovrebbe possederlo. Voto 9

  • #1

    norman (martedì, 16 ottobre 2012 10:37)

    bello veramente , ottimo hard rock

Cupi, feroci e drammatici più che mai, tornano i tedeschi Rammstein a dimostrare al mondo qual è la potenza emotiva che può scatenare l'industrial. L'attesa di questo album si è fatta sentire dopo l'uscita di ogni singolo che ha preceduto "Reise Reise". Questa volta i pionieri del gothic affidano le proprie melodie ad una sezione di archi che compare spesso tra i mastodontici muri di chitarra e le tastiere dal sapore ancestrale. Brani solenni come "Dalai Lama" e "Mein Teil" sono affiancati dall'aggressività di "Keine Lust" o "Moskau", ma anche dalla vena più rock di "Los" e di "Ohne Dich" che sfodera una melodia poetica e romantica.

"Amerika" sembra ricalcare con sarcasmo l'orgoglio americano con toni finto-trionfalistici, mentre "Reise Reise", la traccia che dà il titolo all'album, introduce a quel viaggio che solo le sonorità dei Rammstein sanno puntare. I cori di "Morgenstern", con il crescendo di batteria, inquadrano quella dimensione ultraterrena che il gothic vuole evocare, ma è con "Amour" che i sentimenti tornano reali e terreni.

"Reise Reise" è un disco che denuncia l'americanizzazione del pianeta, così come si può notare dal video di "Amerika" dove i Rammstein vestiti da astronauti si schierano contro prodotti della cultura americana come gli hamburger, i flipper e la Coca-cola. Il sound dei Rammstein è quello di sempre e continua su quello stile che è ormai un marchio di fabbrica per tutti i fan vecchi e nuovi.voto 9 su 10  by rexor

Commenti: 4 (Discussione conclusa)
  • #4

    bonfire (venerdì, 19 ottobre 2012 18:26)

    bel disco

  • #3

    oscurastructura (giovedì, 11 ottobre 2012 02:09)

    GRANDIOSO

  • #2

    samantha (lunedì, 08 ottobre 2012 23:05)

    bello si si e' il mio preferito <3

  • #1

    TWolff (lunedì, 08 ottobre 2012 05:27)

    Forse l'album più bello della loro discografia.Voto 9 anche per me.

Recensire un disco dei Nevermore non è mai facile, vuoi per quell'eclettismo innato che li ha sempre resi difficili da catalogare e da capire , vuoi per la difficoltà a diggerire la voce del singer che trovo non appropriata ed incatalogabile.

Sono passati cinque anni dal cd  "This Godless Endeavor",dischetto accettabile. Il suo successore, "The Obsidian Conspiracy", si presenta fin dal titolo come un disco oscuro e feroce, ma (ahimè, direbbero alcuni) si rivela essere tutt'altro, e cio' la solita pacchianata sperimentale.

A volte mi fanno pensare ai motorhead , ne ascolti uno e li hai ascoltati tutti.  I Nevermore hanno sempre fatto della sperimentazione caparbia e della scelta fuori dagli schemi  , ma il parziale cambio di rotta che si percepisce nella musica del quartetto (ricordiamo la dipartita di Chris Broderick, andato ad affiancare mastro Dave Mustaine nei Megadeth) è di quelli in grado di dividere le opinioni dei fan in maniera radicale, mi spiego meglio: gia' tutti gli album sono simili, gia' la voce e' quella che e...( per me il singer potrebbe essere utile socialmente  facendo volontariato nella nettezza urbana invece di scartavetrare i timpani dei poveri maltapitati), se a tutto questo aggiungi un tentato esperimento musicale, almeno azzeccalo o no? risultato del lavoro  solita pacchianata, mascherata, con l'intento di dare un idea innovativa, ma aime' e' sempre la solita musica.

Partiamo con la produzione ad opera di Peter Wichers, chitarrista degli svedesi Soilwork, già dietro la consolle per il disco solista di Warrel Dane "Praises to the War Machine": pur se appesantita dal "solito", cristallino e perfetto mixaggio del maestro Andy Sneap, appare evidente come la nuova scelta di suoni sia stata volta ad un ridimensionamento dell'irruenza metallica e schiacciasassi del Nevermore-sound   che come qualsiasi prodotto superata la scadenza marcisce e si perde nella ripetitivita' riferendosi a sonorita' che si riscontrano negli album precedenti.  

Non si può fare a meno di constatare come in molti frangenti il chitarrista risulti "scolastico" e poco incisivo, dedito ad un semplice esercizio di mestiere, più che ad una composizione sentita e sudata.praticamente un disco c....to a forza! Duole ammetterlo, ma questo disco dei Nevermore non si risparmia qualche riempitivo che poteva essere evitato (secondo un mio parere evitare l'uscita del cd in questione sarebbe stato piu' gratificante). 

Certo ci sono ancora le sfuriate metalliche pregne di quell'atmosfera apocalittica tanto cara ai nostri, ma si riducono a qualche canzone o ad improvvise impennate ritmiche del biondo chitarrista (un po' deludente sotto il profilo solistico, incappando troppo spesso in ripetizioni scontate). I quattro sembrano voler puntare più ad una musicalità insita nelle canzoni, più brevi, lineari e, sotto un certo punto di vista, accattivanti.                                                       

La costruzione complessa lascia il posto ad un'aggressività immediata, fermo restando le ottime prestazioni dei musicisti (Loomis comunque sottotono). 

In definitiva, se avete sempre amato il lato più progressive ed estremo dei quattro di Seattle, resterete   delusi dalla mansuetudine della chitarra di Loomis su questo album, se invece avete sempre pensato che l'ugola di Dane meritasse il foglio di via  allora molto probabilmente rimarrete della stessa opinione. Un disco onesto, semplice e, forse, pensato per catturare nuovi fan, (magari in un altra vita). Concludo con un mio pensiero:per i malati di nevermore servirebbe una lobotomia, o speriamo che trovino il vaccino per  curare questa malattia che ha come sintomo la presunzione, ripetitivita', lo stagnante modo di vedere le cose. voto 4

Dani75 & Rexor

Siete troppo buoni soci questo album per me merita massimo 3. Che obbrobbrio.TWOLFF

Mai altra entità musicale ha saputo negli anni guadagnarsi l'attenzione di due mondi così distanti e, per certi versi opposti, come il dark e il metal. A dimostrazione di questo successo trasversale, basti pensare alla frequenza con cui capita di imbattersi (che ci si trovi ad un concerto dei Cure o ad un concerto dei Mayhem è del tutto indifferente, ed è questo il bello!) nelle nere magliette dei Lacrimosa, con su stampata la faccetta del celebre clown di Stelio Diamantopoulos e il logo della band, quel "Lacrimosa", appunto, disposto ad arco, che scaturisce dalle mani del clown stesso, come se si trattasse di una magia, di un gioco di prestigio o semplicemente di un trucco scenico. E proprio come un illusionista, Tilo Wolff, autore tedesco poi trapiantato in Svizzera, ha saputo dare vita ad una grande esperienza artistica, che si è rivelata in grado si conquistare ampie fasce di pubblico, ammaliando chiunque fosse sensibile al fascino delle atmosfere decadenti e sensuali di cui negli anni, ed in forme diverse, si è dimostrato alfiere come pochi altri nella storia recente.

Malinconia, teatralità, romanticismo: queste sembrano essere le colonne portanti dell'arte di Tilo Wolff, talento visionario ed anima tormentata, la cui figura androgina lo rende il più degno degli eredi del mitico Bowie dei primi anni settanta. E come per il Duca Bianco il percorso di Tilo Wolff è una continua evoluzione: nato come one-man band, il progetto Lacrimosa si affaccia sul mercato discografico con album come "Angst" e "Einsamkeit", affreschi di inusitata angoscia e desolazione, che da un punto di vista stilistico risultano fortemente ancorati alle suggestioni elettroniche di un oscuro dark/industrial. Questi lavori costituiranno la base su cui innestare elemente sempre nuovi, e con l'aiuto di svariati musicisti, e perfino di un coro e di una orchestra, le manie di grandiosità dell'artista di Francoforte vedranno l'approdo al metal sinfonico che contraddistinguerà la fase della maturità artistica della band.

"Inferno", che a mio parere costituisce il capolavoro insuperato della band, non solo sancisce l'approdo definitivo all'universo metallico, che il buon "Satura" aveva fatto intuire. "Inferno" celebra anche e soprattutto l'ingresso nella formazione di Anne Nurmi, alter ego al femminile di Wolff. E' infatti proprio durante il tour di "Satura" che Tilo Wolff assistendo ad una esibizione dal vivo della band finlandese "Two Witches" (spalla degli stessi Lacrimosa), rimane letteralmente folgorato dal carisma prorompente della loro cantante-tastierista. I suoi sforzi per coivolgere la ragazza nel suo progetto saranno premiati, e così, in virtù di una profonda affinità artistica, il sodalizio ha finalmente luogo, esce l'EP apripista "Schakal" e i Lacrimosa divengono a tutti gli effetti un duo.

Con "Inferno" la formazione si allarga ulteriormente a Jan Yrlund, Jan P. Genkel e AC (ex batterista dei power metaller teutonici Running Wild!!!), che, pur ricoprendo semplici ruoli di turnisti, e non partecipando quindi alla stesura delle musiche, avranno un peso assai rilevante nella svolta intrapresa dalla band: nel 1995, anno di uscita dell'album, i Lacrimosa non sono più un gruppo dark, ma suonano metal a tutti gli effetti, con tanto di chitarroni, basso bastardo e batteria pestona, sull'onda del successo di band come My Dying Bride e Paradise Lost. Ma l'anima decadente e visionaria di Tilo Wolff rimane unica ed inconfondibile, e il legame con il passato anche remoto è tangibile e ben evidente, a dimostrazione di una personalità forte e di una visione poetica ben definita: le atmosfere circensi, la teatralità, la spiccata sensibilità melodica, le visioni desolanti, che qui si arricchiscono della bellissima voce della Nurmi (fra Jarboe e Siouxsie) e delle trame sinfoniche ad opera della stessa, fanno di questo "Inferno" un gioiello ineguagliato di eleganza e struggente malinconia.

Lunghe composizioni si susseguono, più o meno assestate su tempi medi, tutte con l'intento di dipingere un mondo fatto di solitudine, amore perduto e dolore, ma senza mai esasperare l'ascoltatore, dato che l'eccessiva pesantezza legata ai temi e agli umori dell'album è smorzata da una fantasia compositiva fuori dal comune, dalla cura e raffinatezza degli arrangiamenti, e dalla perizia dei musicisti coinvolti. Il sound dei nuovi Lacrimosa non è più quello scarno ed essenziale che aveva caratterizzato i primi lavori: il sound odierno della band è imponente ed elegante come una cattedrale gotica, opprimente a tratti, ma anche maestoso e pregno di atmosfere suggestive. Fra possenti riff di chitarra, maestose orchestrazioni e struggenti partiture di pianoforte, senza dimenticare una spennellata qua e là di violoncello che fa sempre atmosfera, a farla da padrone è ovviamente la caratteristica voce di Tilo Wolff, acida e sgraziata, a tratti grottesca, forte del suo tedesco sputacchiato, che potrà anche non piacere, ma che nel tempo è divenuta, volenti o nolenti, un tratto distintivo della band, senza la quale non potremmo immaginarci oggi la musica dei Lacrimosa. Ma anche le orchestrazioni di Anne Nurmi diverranno un punto di forza della band, mentre, a livello vocale, la carismatica cantante di limiterà a rifinire i lamenti ossianici del buon Tilo, ritagliandosi comunque un ruolo da protagonista nella bellissima "No Blind Eyes Can See".

Quanto ai singoli brani, dire che sono semplicemente belli è poco. La brillantezza del song-writing, l'architettura sempre complessa delle strutture (per lo meno rispetto ai canoni del genere), la quantità di soluzioni tecniche, l'intensità interpretativa fanno di ciascun brano un piccolo capolavoro, e pur partecipando ad un unico flusso emozionale, ogni composizione brilla a tutti gli effetti di luce propria, e non è un caso che quasi tutti i pezzi qui contenuti diverranno classici della band: "Kabinett der Sinne""Versiegelt Glanzumstromt""Schakal" (forse il miglior pezzo scritto dai Lacrimosa) e "Vermachtnis der Sonne" rimarrano per molto tempo nella scaletta delle esibizioni dal vivo. L'intro sinfonico che fa da preludio all'opera diverrà il celebre "Lacrimosa theme"destinato ad aprire i concerti, mentre la coinvolgente "Copycat" (fra post-punk, dark e power metal!) è il classico dei classici dei Lacrimosa, chiamata a chiudere per sempre i live e a presenziare costantemente nelle serate danzerecce di ogni gothic club che si rispetti.

L'avventura di Tilo Wolff e Anne Nurmi continuerà sulla scia di quanto combinato in questo "Inferno", che diverrà il nuovo standard per il futuro, all'insegna di lavori sempre più raffinati e meglio confezionati: "Stille", "Elodia", "Fassade", lavori formalmente perfetti, andranno via via ad esasperare la componente sinfonica, fino a che in "Echos" verranno recuperate le sonorità electro-dark degli esordi, rilette alla luce del bagaglio esperenziale nel frattempo maturato (dell'ultimo "Lichtgestalt", che non mai avuto il piacere di ascoltare, non so dirvi niente, e in tutta sincerità non ho ben chiaro se la band si sia sciolta o meno, dato che è un bel po' che non ne sento parlare).

Tilo Wolff, sempre più compositore classico, diverrà una specie di Renato Zero della Morte e la sua musica, sempre più vittima del suo egocentrismo straripante, finirà per soffrire di ridondanza, manierismo ed eccessivo auto-compiacimento. Se il livello qualitativo rimarrà comunque più che buono, è in questo "Inferno", secondo me, che, pur con le sue imperfezioni e i suoi aspetti migliorabili (che infatti verranno migliorati dai pregevoli successori), il duo sembra raggiungere la quadratura del cerchio, offrendoci i suoi frutti migliori.

P. S. tutti quelli che si chiedono dove sia finito il pagliaccetto di Stelio Diamantopoulos (la copertina è cavallerescamente dedicata all'angelo darkettone che va a rappresentare la new-entry Anne Nurmi) possono stare tranquilli: basta osservare il prolungamento della copertina nel booklet interno e lo ritroviamo sperticato sul cornicione di un grattacielo a suonare imperterrito il suo violino...

E' inutile dire che quest'album è ti bombarda di emozioni e cariche di pura maestranza. Assolutamente voto 10.TWOLFF

 

Commenti: 4 (Discussione conclusa)
  • #4

    TWolff (mercoledì, 24 ottobre 2012 20:36)

    Errata corrige:
    Non aveva 21 anni quando ha composto questo album ma bensì 23.

  • #3

    TWolff (giovedì, 18 ottobre 2012 20:51)

    Caro warfire come posso non darti ragione. Per chi adora i Lacrimosa, Inferno è uno dei lavori più completo e ben fatto della loro carriera. Ed è da sottolineare che il caro Tilo Wolff, quando ha composto questo album, aveva SOLO 21 ANNI. Pazzesco eh?

  • #2

    warfire (giovedì, 18 ottobre 2012 10:48)

    bello sarebbe un errore non aquistarlo

  • #1

    samantha (giovedì, 11 ottobre 2012 16:53)

    very nice cd good!

I Maiden probabilmente non si sarebbero mai imaginati agli albori della loro carriera, quando scorazzavano in giro per il per l'Europa e per il Mondo con Di Anno, cantando canzoni grezze e dirette come quelle delle prime produzioni, di arrivare a creare un'opera profonda, ispirata, magica, complessa quale "Seventh Son of a Seventh Son".

L'album in questione risale al 1988, ed è il risultato più eclatante sia per vendite che per effettiva qualità sonora e produttiva. Un vero capolavoro sotto tutti i punti di vista. Il disco precedente ("Somewhere in Time") era stato un'anteprima di quello che sarebbe successo con "Seventh Son". Le tastiere, che erano state in parte criticate, in questo disco si uniscono perfettamente con le chitarre distorte di Murray e Smith per creare un concepì album da brividi.

Sette i peccati mortali, sette le strade per vincere. Sette sacri percorsi per l'inferno e il tuo viaggio comincia... sette pendii scoscesi, sette speranze sanguinose, sette sono i tuoi fuochi brucianti...sette i tuoi desideri...

Con queste parole si apre il capolavoro, e con queste stesse parole si chiuderà alla fine delle 8 stupende tracce che compongono l'opera. L'apertura è lasciata alla luciferiana "Moonchild", che con riff travolgenti e un'interpretazione di Dickinson da urlo, ci inizia alle atmosfere cupe e tenebrose che saranno comuni per tutto il disco. La seconda traccia, "Infinite Dreams", è una delle più belle canzoni metal di sempre. Si apre con le chitarre sognanti e la voce narrante di Dickinson, per poi esplodere in un misto tra sogno e follia che incendiano totalmente il cuore dell'ascoltatore. "Can I Play With Madness" è l'unica traccia che si discosta totalmente dall'atmosfera generale. Infatti questo singolo (il primo estratto dall'album) è allegro e trascinante, quasi commerciale. "The Evil That Men Do", canzone ispirata ad una storia di Shakespeare, è probabilmente il punto più alto del disco, e non per caso è anche una delle canzoni più riproposte dal vivo dal sestetto britannico. Appena ci siamo ripresi dalle forti emozioni che ci ha regalato fino ad ora questo disco, ci troviamo catapultati nell'imponente title track. Questa è una canzone stupenda, emozionante, che fa sentire un brivido sulla schiena ad ogni singola nota. La parte strumentale del brano è molto simile a quella di "Rime of the Ancient Mariner" (Powerslave). "The Prophecy" è stupefacente e quasi angosciante nella sua malinconia e nella sua andatura lenta e ridondante. L'arpeggio finale di chitarra acustica merita una citazione per bellezza e armoniosità. Un veloce intro di basso ci apre le porte di "The Clairvoyant" pezzo che ci pone a tutti la domanda: e se lucifero tornerà? "Only the Good Die Young", è un pezzo veloce e appassionante che chiude degnamente uno dei più bei dischi di sempre nella storia del rock.  

Sette i peccati mortali, sette le strade per vincere. Sette sacri percorsi per l'inferno... sette pendii scoscesi, sette speranze sanguinose, sette sono i tuoi fuochi brucianti...sette i tuoi desideri.....voto 10

Dani75

Commenti: 1 (Discussione conclusa)
  • #1

    J*a*m*S (martedì, 16 ottobre 2012 18:34)

    bellissimo capolavoro

 un nome ormai divenuto sinonimo di leggenda. Una leggenda che, scandita dalla voce stentorea di Till Lindemann, risuona in tutta la sua deflagrante potenza nel coro di "Rammlied", Ramm-canzone destinata non solo a richiamare alla memoria il grande album d'esordio "Herzeleid", ma a destare quella nostalgia di bei tempi ormai passati fatti da spensieratezza e voglia di stupire,di crescere,di sperimentare,messa subito in atto sulle scene live capaci di garantire concerti o spazi di musica coinvolgente ed emozionante. album provocatorio fin dal titolo – se non fosse per la cruenta raffigurazione di stampo fiammingo posta in copertina e all’interno dello strepitoso booklet – l’ultimo nato della formazione teutonica segna un parziale ritorno alle sonorità tanz-metall degli esordi, qui ben rappresentate da canzoni quali "Ich tu dir weh", "Waidmanns Heil" e "Haifisch", in cui il genio malato di Christian "Flake" Lorenz si accompagna a strutture ritmiche di elevata esecuzione. ormai lo sappiamo, sotto quei volti coperti di fuliggine e sopra gli anfibi si cela un animo sensibile; ed è così che, in mezzo alle sfuriate di "B********" e "Wiener Blut", salutiamo con gioia l’arrivo della primavera parigina ("Frühling in Paris"), ideale trasposizione dei Rammstein nelle atmosfere della Nouvelle Vague e momento di poesia assoluta, da accompagnare dal vivo con il buio assoluto rischiarato solo dal moto ondulatorio dei vostri lanciafiamme portatili. Del singolo "Pussy" si è già detto (e visto) tutto –forse sara'un po ,,,,,,provocatoria,,,,,,,.forse e' meglio passare al finale, dove ad attenderci troviamo altre gradite sorprese. La title-track innanzitutto, come da tradizione tra gli highlight del disco grazie al piglio maligno di Till Lindemann ed al drumming forsennato di Christoph "Doom" Schneider; la successiva "Mehr", in cui il fenomenale pattern elettronico viene smorzato da un ritornello molto incisivo ; e infine la conclusiva "Roter Sand", ennesima dimostrazione di come i nostri diano ormai il meglio di sé nei frangenti più rilfessivi.cos'altro dire, a mio parere questo, risulta un lavoro molto complesso che sa regalarci  emozioni fin dal primo ascolto,,,,,,.voto  8,5  by rexor

Altro capolavoro di una delle bando più amate del momento. Voto 8.5.TWolff

Ascoltare questo album potrebbe provocarvi una "reazione cognitiva e fisica" e, in alcuni casi, anche "alterazioni somatiche diffuse". No, non sono impazzito, non ancora almeno. Prima che qualche parente o qualche discografico dei Lacrimosa, dopo aver letto la prima riga, mi denunci per diffamazione, è meglio precisare che quelli sono gli effetti di una sensazione chiamata volgarmente "emozione". Ebbene si, quest’album è capace di emozionare l’ascoltatore. Ma facciamo un passo indietro. L’album in questione si chiama "Fassade", uscito nel 2001, a dieci anni esatti dall’entrata nella scena gothic di questo gruppo. I componenti principali sono il tuttofare, eccentrico, carismatico Tilo Wolf e la sua compagna, l’affascinante Anne Nurmi. E sono proprio loro a rendere unici al mondo i Lacrimosa, talmente unici, da rendere difficile qualsiasi classificazione: in "Fassade", si può ben notare come "la musica classica ha una potenza tale da rivaleggiare con quella del genere metal, la cui unione rafforza il risultato, non rendendolo anacronistico o risibile". (ndr Parole dello stesso Tilo Wolf, in riferimento all’album qui recensito).

Momenti lenti e riflessivi si alternano a parti più ritmate e potenti, ma col comune denominatore di un senso di sofferenza e tristezza. La voce di Tilo, ora sussurrante, ora roca, ora straziante, dà un’intonazione angosciante alle tracce, conferendogli quel tocco di gothic che solo lui sa dare. L’album si apre con Fassade - 1.Satz, l’atmosfera è "classicheggiante", oserei definirla divina, la voce di Tilo all’inizio risulta essere quasi straziante, ma man mano che i nove minuti passano ci si abitua e ci si inizia a calare in questa nuova realtà. Le chitarre duettano con gli archi, cori maestosi alternano la voce maschile: l’inizio è senza dubbio ottimo. La seconda traccia, Der Morgen Danach, è una sorta di ballata; è probabilmente la più orecchiabile e facile da assimilare di tutto l’intero album, e proprio per questi motivi, è anche la meno apprezzata dagli appassionati del gruppo, un po' troppo poco originale forse. Intendiamoci, se questa canzone l’avesse fatta Luca Dirisio (non sapete chi è? Beati voi), probabilmente si sarebbe gridato al capolavoro, ma dai Lacrimosa ci aspettiamo qualcosa in più, quel qualcosa in più che infatti non tarda ad arrivare. La terza song infatti, Senses, l’unica in lingua inglese, torna a farci sognare. La voce stavolta è di Anne, voce suadente, decisa, ma per certi versi anche dolce; da segnalare un assolo di chitarra alla fine del minuto quattro, davvero da capogiro, che sottolinea la bravura incontestabile di Tilo nel sovrapporre suoni e strumenti. Waruf so Tief? viaggia sugli stessi binari, solo che ritroviamo la voce di Tilo al posto di quella di Anne. In Fassade - 2.Satzl’atmosfera è quasi sacra, l’orchestra sale in cattedra e cori lirici non fanno che sottolineare la bellezza del pezzo. Arriviamo alla sesta Liebesspie; a dire il vero l’atmosfera tirata e straziante fin lì prodotta inizia ad essere pesante, ma ecco che questa traccia cambia del tutto registro rispetto a quelle passate: i suoni sono più metal, decisi riff di chitarra, voce più profonda e più roca, quasi "cattiva" per intenderci, mista a voci femminili che potremmo definire quasi surreali: il risultato è un pezzo originale che si candida come migliore del disco, forse anche perchè è la più diversa dalle altre. Ma tutta la carica con cui ci ha lasciato questo pezzo svanisce immediatamente con l’inizio di Stumme Worte, canzone decisamente lenta, in cui i duetti fra archi e pianoforte la fanno da padrona. Siamo già arrivati all’ultima canzone, l’ottava, Fassade - 3.Satz, in cui pesanti sonorità gothic sono contrapposte ad un accompagnamento orchestrale di tutto rispetto.

L’argomento dominante di "Fassade" è l’intensa analisi della psiche umana, e il suo confronto con gli aspetti religiosi. In conclusione, possiamo parlare di un altro ottimo lavoro di Tilo & C., forse non il migliore della loro carriera, ma sicuramente un album di tutto rispetto.

Cos'altro aggiungere di questo album? A mio parere è uno dei più belli che Tilo abbia composto, direi al 4°posto della mia classifica. Voto (NB) 8.5.TwOLFF

Commenti: 3 (Discussione conclusa)
  • #3

    oscurastructura (mercoledì, 24 ottobre 2012 15:45)

    ottimo disco da apprezzare

  • #2

    fear (martedì, 16 ottobre 2012 18:35)

    ottimo cd

  • #1

    J*a*m*S (mercoledì, 03 ottobre 2012 23:14)

    L'HO COMPRATO DA POCO ANCORA NON HO FINITO DI GUSTARLO.

Nel 2003, dopo tanti anni di attesa, i Metallica pubblicano St. Anger, l’album che nell’intento della band e dell’odiato produttore Bob Rock avrebbe dovuto ricucire lo strappo con i fans del passato delusi dalle sperimentazioni e dalla scarsa qualità di garage inc..
Ritorno al metal, dunque, per la gioia di tutti ma, purtroppo, evidentemente solo nelle favole c’è un lieto fine.
Certo è indubbio che le sonorità hard rock del passato siano un lontano ricordo e che le tracks presenti in St. Anger (dalla copertina che definire ORRIBILE è puro eufemismo) virino in modo netto verso l’heavy ma, purtroppo, il risultato finale è davvero deludente.
In primo luogo dobbiamo evidenziare la pessima qualità della registrazione: il suono della batteria di Lars Ulrich, per esempio, può essere paragonato a quello che si ottiene utilizzando fustini di detersivo di sottomarca!
I componenti del gruppo si giustificarono affermando che era loro intenzione ricavare un sound uguale a quello prodotto negli anni ottanta registrando nei garage (INC. forse? MMMMahhhh); il prodotto conclusivo di questa bella idea (uah) è che gli undici brani contenuti in questa release ne risultano gravemente danneggiati, se non irrecuperabili proprio!!
Altre osservazioni:
- l’eccessiva lunghezza dei pezzi che alla fine stancano l’ascoltatore anche perché la qualità delle composizioni è scarsa;
- lo spazio per gli assoli di Hammett ed Hetfield è davvero ridotto all’osso in favore di riff pesanti, peraltro poco vari e spesso insignificanti;
- la presenza di sonorità vagamente nu-metal (alla Korn per intenderci meglio che si rilevano chiaramente nel suono distorto del basso) da sempre odiate dal vero metallaro.
Curiosità: la band iniziò a registrare l’album nell'aprile del 2001 con al basso il famigerato Bob Rock al posto di Jason Newsted che sarà, poi, sostituito definitivamente dall’ex Suicidal Tendencies Robert Trujillo.

Cosa possiamo salvare da questo ennesimo capitombolo dei Metallica?
Sicuramente niente.

Sinceramente è inutile andare avanti: l’album prosegue annoiando è questa l’unica incontrovertibile realtà.
Nelle intenzioni dei Metallica il sound doveva avere un impatto violento sull’ascoltatore (ma solo, data la pesantezza, se te lo lanciassero in testa), mediante l’utilizzo di sonorità grezze e di un cantato duro e arcigno; di fatto il risultato finale è deprimente oltremisura. Troppi, davvero troppi, i momenti di stanca e poche le luci.

Ragazzi, pensate che sia un caso che dal 2006 i Metallica non eseguano nei loro shows brani da St. Anger?
Penso proprio di no, pure loro si saranno resi conto di aver creato alla grande il gran visir de tut le block.
In un sito internazionale dedicato al metal (non dico quale per non fare pubblicità agli altri) St. Anger viene giudicato il peggior disco di tutti i tempi.

E' davvero da far pena pensare a quelli che hanno acquistato l'edizione limitata che, hanno avuto la sfortuna, oltre che di ascoltarli,  di osservarli in tutto il loro splendore suonare queste orripilanti note.

E pensare che esisterà sempre qualcuno che, non capendo proprio nulla del genere, dirà: SOLDI SPESI BENE!!!

Sfido chiunque ad azzardare nel votare questo "capitombolo" a più di 2.

Dany75, Rexor e Twolff: voto 1 

 

 

Commenti: 2 (Discussione conclusa)
  • #2

    tormentor (martedì, 02 ottobre 2012 11:13)

    che schifo di cd

  • #1

    wader (domenica, 30 settembre 2012 21:04)

    che ciofeca, ascoltato e riascoltato mi da sempre lo stesso effetto zero assoluto.

GRANDE ATTESISSIMO LAVORO DEI LACRIMOSA, PER LA PRECISIONE UNDICESIMO FULL LENGHT ALBUM IN STUDIO, DOPO L'USCITA DELL'ANNO SCORSO DEL DOPPIO CD IN ONORE DEI VENTI ANNI DI CARRIERA E DOPO TRE ANNI DALL'USCITA DI SEHNSUCHT, DECIMO STUDIO ALBUM, CI TROVIAMO DI FRONTE ALL'ENNESIMO, CURATO, BEN COMPOSTO E SUONATO LAVORO DI TILO WOLFF.

PARTIAMO COL DIRE CHE CI SONO PRESENTI TRE COMPONENTI DI UN CERTO RANGO:Henrik Flyman (EVIL MASQUERADE) alla chitarra, Mille Petrozza (KREATOR) e Stefan Schwarzmann (ACCEPT). 

C'E' SUBITO DA DIRE CHE SI TRATTA DI UN DISCO CON SONORITA' HEAVY PIU' MARCATE DEL SOLITO; ABBIAMO A CHE FARE CON ALCUNI PEZZI, IN PARTICOLAR MODO LA TITLE TRACK, DOVE LA CHITARRA E' PIU' ACCENTUATA E IMPONENTE, LA BATTERIA SUONA CON PASSAGGI PIU' TECNICI. POI COSA DIRE DEL CANTATO E DELLA PARTE ORCHESTRALE? ASSOLUTAMENTE, SEMPRE A MIO AVVISO, ORIGINALI E TRAVOLGENTI. 

GIA' L'OPENER TRACK DA UNA IDEA DEL CAMBIAMENTO, MOLTO BEN FATTO A MIO PARERE, MUSICALE E ORCHESTRALE. COSI' COME If The World Stood Still A Day, CANTATA DALLA SPLENDIDA VOCE DI ANNE NURMI, IL TERZO BRANO, Verloren, DA UNA IDEA PROPRIO CHIARA DI CHE TIPO DI ALBUM STIAMO PARLANDO. MA E' INUTILE PARLARE DI OGNI SINGOLA CANZONE PERCHE', SI SA, GLI ALBUM DEI LACRIMOSA SONO MAN MANO CHE SI VA AVANTI PIENI DI SORPRESE, QUINDI BISOGNA ASCOLTARLO DALL'INIZIO ALLA FINE PER POTER GIUDICARE. PER QUANTO MI CONCERNE, A MIO MODESTO PARERE, GIUDICANDO DA FAN E COLLEZIONISTA ACCANITO DA ORMAI TREDICI ANNI DI QUESTA BAND, POSSO SOLTANTO CONFERMARE L'ENNESIMO OTTIMO LAVORO CHE TILO HA CREATO. MIGLIORE A MIO AVVISO DI SEHNSUCHT E, SEPPUR CON INNOVAZIONI MUSICALI, ANCHE SE PARLIAMO DI DUE ALBUM DIVERSI, DA LE STESSE EMOZIONI DI LICHTGESTALT. PER GLI ACCANITI COME ME CI SI SENTE MOLTO APPAGATI SCOPRIRE DI ANNO IN ANNO, E DOPO 21 ANNI DALL'ESORDIO, CHE BAND COME QUESTA NON TI DELUDE MAI E, SOPRATTUTTO, CONTINUA A FARTI SOGNARE NON PERDENDOSI IN NOIOSE E RIPETITIVE MELODIE. SECONDO ME E' UNA DI QUELLE BAND CHE HA TANTO DA RACCONTARE ANCORA.

IL MIO VOTO: 9

TWOLFF 

Commenti: 1 (Discussione conclusa)
  • #1

    SHADOWWWW (lunedì, 01 ottobre 2012 23:28)

    VERY GREAT

Detto così, farebbe andare di squaraus selvaggio anche il sottoscritto, che quanto a pessimi gusti musicali se ne intende un pochino. E, in effetti, quando si parla di metallo estremo imbastardito da orchestra, tastierine, coretti e pasticceria varia il primo nome che in genere balza alla mente è: Dimmu Borgir, nonché tutte le porcherie che ci hanno propinato nello scorso decennio fino al mediocre “Abrahadabra”. Non per niente quando qualche anno fa sentii parlare dei Septicflesh e della loro proposta musicale mi scoraggiai parecchio, prestandomi così con una certa riluttanza all’ascolto di “Communion” (2008), esplosivo comeback del gruppo dopo lo scioglimento nel 2003. Inutile dirlo, il lavoro svolto da questi quattro demoni greci mi sembrò per fortuna non una, ma dieci spanne sopra i loro “cuginetti” (ex-)blacksters dalla fredda Norvegia.

Senza contare il fatto che nessun membro del gruppo voglia conciarsi come se dovesse partecipare al carnevale true grim di Oslo con tanto di copricapo-polipesco reale e scettro di Sailor Moon, il quartetto greco ha un’attitudine un po’ più onesta e diretta col proprio pubblico: insomma, si punta più sull’arrosto che sul fumo. E se con “Communion” di arrosto ne avevamo di che saziarci, posso assicurare che questa nuova “Grande Messa” (2011) sarà destinata a diventare col passare degli ascolti una “Grande Grigliata”. Di carne umana, ma questi sono dettagli.

Non si può negare però che questa volta i Septicflesh abbiano voluto fare le cose in grande: supportati da una massiccia dose di pubblicità, una produzione stellare e, di nuovo, un’intera orchestra con cori annessi, ci consegnano quella che è la loro opera più ambiziosa e, a detta di chi scrive, anche più completa e matura di sempre.

Quali sono le differenze rispetto a “Communion”? In realtà poche, se non nessuna. Il genere resta sempre quello: un death metal roccioso (ma non troppo), rimpolpato dall’orchestra sempre presente (ma non troppo), impreziosito da sfumature mediorientali (non solo musicali!) che sembrano ricalcare un po’ gli ultimi lavori di Behemoth, Nile e compagnia accadico-assiro-babilonese-vattelapesca varia. Allo stesso tempo però possiamo riscontrare una maggiore pienezza nelle composizioni (stavolta davvero curatissime, varie, imprevedibili, ricche di particolari) e un uso ancora più versatile e coerente delle orchestrazioni, divenute vera e propria ossatura dei brani. Insomma: quasi zero novità, ma un lavoro di consolidamento impeccabile; e non è un caso che si stiano facendo notare così tanto nella scena ghisallara per quest’ultima uscita!

A conferma di quanto detto finora basterebbe dare un ascolto all’opener e singolo-antipasto “The Vampire From Nazareth”, seguito a rotta di collo da “A Great Mass Of Death”: la prima è spaventosamente cinematografica, uno spietato ed elegante cingolato pilotato da Pazuzu in persona pronto per fare la sua porca figura in sede live, mentre la seconda si snoda audacemente tra aperture epiche, ritmiche contenute ma serratissime, stacchi classicheggianti da colonna sonora per poi infine schiantarsi a tutto gas in un’orgia di sferragliate metalliche, cori invasati e orchestrazioni orgasmiche. E questa era solo la doppietta iniziale!

“Pyramid God” è un’ incalzante scalata in mid-tempo destinata anch’essa a venire risucchiata dalla filarmonica sul finale, ed episodi come l’inquietanteThe Undead Keep Dreaming” e soprattutto la deserticaOceans Of Grey” (preferita dal recensore!) non fanno che risaltare l’aura di sinistro misticismo di cui è intrisa questa grande messa/grigliata. Per non parlare poi della schizzatissimaMad Architect” dove i nostri greci sembrano aver bevuto qualche litro di caffè di troppo e il tutto si traduce in una parossistica sfilata di orrori, incubi, visioni ancestrali e chi più ne ha più ne metta.

Nota a parte per il cantato pulito di Sotiris: personalmente l’ho sempre trovato fuori luogo (se non irritante) soprattutto nei brani di cui è vero protagonista: in questo caso “Rising” fa un po’ il verso alla “Sunlight/Moonlight” presente in “Communion” e il risultato è più o meno lo stesso, ossia ammosciante e privo di mordente. Sembra quasi che i Septicflesh vogliano variare a tutti i costi, e forse non sanno che in realtà non hanno affatto bisogno di certi espedienti. Sfortunatamente la storia si ripete con l’ultimo brano “Therianthropy”: dopo tutto il ben di Di... ehm, di Ishtar propinatoci finora, i Septicflesh decidono di concludere affidandosi ancora una volta ad arrangiamenti sì eleganti, ma un po’ insipidi e appiattiti dal timbro nasale di Sotiris; insomma, dopo la supergrigliatona colossale, arriva la Clerici col suo grand soleil a rovinare il tutto.

A dispetto di certe piccole cadute di tono, comunque, un lavoro di classe come “The Great Mass” è un’autentica manna per il mercato metalloso degli ultimi tempi, specie se confrontato coi vari pretenziosetti “Abrahadabra” che riescono solo ad impacchianire un genere musicale ormai spremuto e rivoltato all’inverosimile. In ogni caso siamo di fronte ad un gioiellino di rara qualità destinato ad entrare nelle classifiche 2011 dei metallari più indefessi, tra i quali mi inserisco con una certa circospezione...

Intanto, caro il mio Shagrath, prendi nota. voto 9

Dani75

Commenti: 4 (Discussione conclusa)
  • #4

    J*a*m*S (mercoledì, 03 ottobre 2012 00:47)

    quale sublime masturbazione sonora

  • #3

    fear (martedì, 02 ottobre 2012 11:56)

    ottimo cd da ascoltare e riascoltare 1000 volte

  • #2

    samantha (sabato, 29 settembre 2012 00:53)

    wowwwwwwww goodddddddd

  • #1

    necromortem (venerdì, 28 settembre 2012 22:49)

    sti qua' spaccano il culo raga'

Sicuramente quando sentiamo la parola Heavy Metal la prima cosa che ci passa per la mente o che riusciamo ad associarci sono gli Iron Maiden, e come darvi torto, infatti la band di Steve Harris e soci è riuscita a dare alla luce negli anni dei capolavori che hanno fatto la storia della musica, entrando di diritto nei cuori di milioni di fans in tutto il mondo, me compreso, confermandosi del tutto con "Seventh Son Of A Seventh Son", uscito nel 1988. A proposito di capolavori dell'heavy metal, proprio nel 1988 i Running Wild, glorioso gruppo appartenente alla fiorente scuola metal tedesca, riesce a fare il colpaccio grazie allo spiazzante "Port Royal".Uscito ad un anno di distanza dal precedente "Under Jolly Roger", esso rappresenta a mio avviso l'episodio più felice del primo periodo della band, formatasi nei primissimi anni degli eighties per mano del chitarrista-cantante Rock'N'Rolf Kasparek, che tiene ancor'oggi le redini dei Running Wild.

"Port Royal" ha il pregio di riuscire a rappresentare l'heavy nella sua forma più grezza, dalla copertina (che assieme all'intro viene ambientata in una locanda di Port Royal) alle canzoni, che presentano una struttura poco complicata e dei testi molto pungenti, come capitan Kasparek sa fare. Ci tengo in ogni caso a dire che questo discone, nonostante la disarmante semplicità con cui è confezionato, si presenta a mio parere sicuramente come uno dei migliori dischi dell'heavy metal fatto a vecchia maniera, grazie alla presenza di undici canzoni che non mi vergognerei a definire come undici capolavori, che tenterò ora di esaminare.

Subito dopo l'intro arriva il turno della Title Track, a mio avviso il pezzo forte del disco e uno dei migliori dei quattro pirati, perfetto sotto ogni punto di vista, che ci catapulta su un'altra perla quale è "Raging Fire", pezzo molto apprezzato dai fan. Quarta traccia che troviamo è "Into The Arena", altra perla del disco, che può vantare un riff di apertura e un ritornello tra i migliori che abbia mai ascoltato... Headbanging assicurato! Arriva ora il turno di "Uaschitschun", un'altra delle tante canzoni splendide contenute in quest'album, alla cui fine viene letto un proverbio indiano (che in molti dovrebbero ripassare), dopodiché troviamo "Final Gates", bella strumentale che ha il compito di introdurre una canzone che viene considerata tra le migliori dei Running Wild, cioè "Conquistadores", epicissima song che tratta delle opere compiute dai conquistadores Spagnoli nell'America meridionale: un capolavoro. Ottava canzone è l'interessantissima "Blown to Kingdom Come", seguita a ruota dalla classica "Warchild", presente, anche se in una versione totalmente diversa nella loro prima demo targata '81. Infine, dopo la penultima"Munity", l'unica canzone che non mi convince più di tento, arriva il turno della finale "Calico Jack", che racconta la storia e il processo del corsaro John Rackham.

Inutile dire che questo discone sia suonato in maniera splendida e tengo a sottolineare la superba Prova di Jens Becker, che svolge in maniera pressochè ottima il suo ruolo di bassista, per non marlare poi del drummer Ian Finlay e delle chitarre di Majk Moti e Rock'n'Rolf, impegnate a sostenere la voce di quest'ultimo.
Spero solo che tutto questo mio entusiasmo non abbia sporcato la straripante bellezza di questo cd, che qualunque appassionato di heavy dovrebbe vergognarsi di non possiedere e che si presenta come uno dei dischi più belli che abbia mai sentito, spero sia lo stesso per voi... 
Beh, arrivati a questo punto mi resta da dire solo un'altra cosa: W I PIRATI DEL METAL!!!!!!!!!! >/p>

E' proprio vero, il vero heavy metal risale agli anni 80 - 90. 

Questo album è una delle perle della collana del metal.Voto 9.

TWOLFF

Commenti: 4 (Discussione conclusa)
  • #4

    bonfire (mercoledì, 03 ottobre 2012 01:34)

    disco davvero bello mi garba

  • #3

    samantha (sabato, 29 settembre 2012 00:52)

    great album!!!

  • #2

    wader (venerdì, 28 settembre 2012 22:44)

    muy lindo!!!!!!!!!!!!!!

  • #1

    dani75 (venerdì, 28 settembre 2012 22:26)

    sono d'accordo , bei tempi passati....port royal.....death or glory (mio preferito)...under jolly roger.

Grande lavoro per gli ellenici capitanati da Sotiris (già mente dei sottovalutati Chaostar), tredici canzoni nel complesso tutte ben costruite ed arrangiate, nelle quali si respira solennità e poesia, elementi chiave della tragedia greca.Devo essere sincero: dopo il maestoso intro "Behold...the Land of Promise" non mi aspettavo senza dubbio una canzone scialba, monotona e senz'anima quale "Unbeliver" (se il buon giorno si vede dal mattino...).Falso allarme per la fortuna di ogni compratore di tale dischetto ottico: Sumerian Daemons si rivelerà, ascolto dopo ascolto, un condensato di musica ben composta e soprattutto ottimamente eseguita, nella quale troviamo spunti mai banali, ma al contrario coinvolgenti e ben costruiti ("Virtues of the Beast" è forse la migliore song dell' intero lotto, così come "Magic Loves Infinity").
Il disco evoca, in alcune parti, i migliori Moonspell (ai tempi di "Wolfheart") e in alcuni passaggi gli elvetici Samael (soprattutto per l' uso di alcune parti tastieristiche); stiamo parlando di un'impalcatura sonora costruita su mid-tempos talvolta inframezzati da accelerazioni di matrice black metal, sfuriate "contenute" e brevi che però non fanno altro che spezzare ritmicamente un tessuto tramato di oscurità e buon gusto.Leggermente monocorde la voce del buon Sotiris, quel semi-growling che non reca fastidio al timpano, senza però aggiungere nulla alla parte musicale.A parte questa piccolezza, produzione ottima ed eccezionale artwork danno la stoccata decisiva al mio giudizio.

Devo ammettere che l’opener ‘Unbeliever’ mi aveva fuorviato fino all’esagerazione.

Difatti, di seguito al proemio di ‘orffiana’ memoria ‘BeHold…The Land Of Promise’ irrompeva un motivo brutale, selvaggio, riconducibile ad un death grossolano e minimale, compresi blast-beat a dismisura, growl lancinanti e riff stereotipati. Neppure prima dell’esordio questi discendenti della gloriosa terra di Platone pestavano con tale accanimento.

Effettivamente le dichiarazioni preventive di Sotiris e soci facevano presupporre ad un ritorno al passato, non però ad una sorta di trapassato…

In seguito, quando gli interrogativi adottati dall’uso comune affioravano e divoravano le cellule cerebrali in maniera anche piuttosto prepotente (Ma cosa sarà successo? Ma perché si sono messi a fare ‘sta roba?), l’insieme di queste invero sciocche osservazioni si dissolvevano subitaneamente all’ascolto di tutte le successive canzoni che centravano perfettamente il bersaglio amalgamando i primi tre capolavori della band e congiungendo al tutto un’infinita quantità di cori epici da brivido (fantastici i gorgheggi della soprano-singer Natalie Rassoulis, ripresa repentinamente in formazione) che riportano alla mente le migliori intuizioni dei Therion (Theli-era).

Il tutto, o a velocità sostenute, ‘Faust’, la title-track e ‘Red Cold Cult’ ne sono lampanti esempi con le loro fughe melodico-blackeggianti che le fanno assimilare alle tracce contenute nel prezioso debutto ‘Mystic Places Of Dawn’, o nel modello più cadenzato, maggiormente evidenziato dai nostri nel binomio ‘Esoptron’ / ‘Ophidian Wheel’ con ‘Virtues Of The Beast’, ‘Dark River’ e ‘When All Is None’.

Come al solito nella dimora degli ellenici non mancano le sperimentazioni con le più electro-oriented ‘Magic Loves Infinity’ e ‘Mechanical Babylon’. Sempre in primo piano i dispotici e leonini growl di Set “H” (prima si faceva denominare Spiros…), che erano stati al contrario messi in naftalina nel precedente ‘Revolution DNA’ e, comunque, è semplicemente impresso a fuoco il trademark Septic Flesh in tutte composizioni.

Lo ‘schiaffone’ iniziale? Altro non serviva che per far emettere il primo vagito alla nuova, malevola creazione…voto 8,5

Dani75

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  • #2

    Silent (sabato, 29 settembre 2012 02:03)

    MASSICCIO . COMPATTO.

  • #1

    samantha (sabato, 29 settembre 2012 00:54)

    beautifullllllllll

Sono gli ultimi mesi del 1997 quando, come un terremoto, gli Hammerfall fanno riscoprire al popolo metallico la passione per le vecchie sonorità anni '80. Ma in quel periodo non esplode solo il fenomeno Hammerfall. Esplode anche (e soprattutto) il fenomeno Rhapsody. E stavolta il gruppo è "addirittura" italiano!
Già, finalmente dopo anni di oblio, di buoni intenti, di buoni gruppi spesso snobbati, di buone recensioni (anche internazionali) ma di scarse vendite un gruppo italiano riesce a destare l'attenzione dell'audience europea. Quasi dal nulla saltano fuori questi triestini, forse un po' presuntuosi ma dalle indubbie capacità, con uno stile molto personale che unisce sapientemente le tipiche sonorità e l'immediatezza del power ad elementi tipici medievali ed orchestrazioni ricercate molto classicheggianti (che a tratti ricordano i Royal Hunt di "Moving Target"). A tutto questo va aggiunta, oltre al largo uso di strumentisti per rendere le orchestrazioni più vere possibili, una produzione impeccabile affidata alla coppia Paeth/Miro (che proprio al lavoro con i Rhapsody deve la fama raggiunta). Gli elementi portanti del gruppo sono il chitarrista Luca Turilli e il tastierista Alex Staropoli che, per scelta, sono anche le uniche due menti compositive del gruppo. A loro due va aggiunto il singer Fabio Lione, già conosciuto per la sua militanza nei Labyrinth (anche se usava uno pseudonimo…), che con il suo modo teatrale di cantare sembra essere l'unico interprete possibile per la musica dei due triestini.

Tante sono le perle racchiuse in questo disco, a partire dalle due traccie iniziali: Ira Tenax è coro latino molto oscuro in stile Carmina Burana a cui fa seguito la dirompente Warrior of Ice (dopo l'ascolto della quale mi catapultai in negozio ad acquistare il cd!). Seguono, in ordine sparso, i delicati momenti "medievali" di Forest of Unicorn o della stupenda tiltle track e le imperiose sfuriate di Flames of Revengee Lord of the Thunder, passando per la saltellante Land of Immortals o l'oscura Rage of the Winter. Praticamente un disco dove tutto è al suo posto, con molti cambi d’atmosfera ma senza cali di tensione, neanche nei momenti più drammatici di canzoni come Echoes of Tragedy. A livello di lyrics i brani sono incentrati sulla Emerald Sword Saga, un racconto fantasy interamente inventato da Turilli che rivela subito le ambizioni del gruppo: infatti già da questo primo lavoro l'intenzione era quella di far proseguire la storia per altri 3 o 4 dischi (cosa peraltro riuscita).

Tirando le conclusioni questo è il punto di inizio dell' Hollywood Metal (termine coniato dai nostri), che tanto ha influenzato e sta ancora influenzando la scena europea (soprattutto italiana e spagnola), un disco immancabile per gli affezionati del genere. Capostipite.

Tracklist:

1. Ira Tenax 
2. Warrior of Ice 
3. Rage of Winter 
4. Forest of Unicorns
5. Flames of Revenge 
6. Virgin Skies 
7. Land of Immortal
8. Echoes of Tragedy
9. Lord of Thunder 
10. Legendary Tales

 

(Recensione presa da internet)

Assolutamente d'accordo. Album bellissimo. Voto 9. TWOLFF

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  • #1

    luca (sabato, 29 settembre 2012 01:18)

    bel cd lo apprezzo molto

Difficile ubicare un gruppo del genere in ambito metal, perchè "secondo il mio modesto parere", nessun'altro aveva espresso, con tale musica, una così malata dolcezza. L'album è un valido esempio di quello che chiamiamo "Gothic Metal", ma offre atmosfere non cupe e minacciose, bensi crea arie più tristi e afflitte, ma non solo: presenta forti spunti prog - rock e persino folk; ogni canzone è caratterizzata da una forte malinconia: mai scontate e immancabilmente disperate; infine, le partiture orchestrali, rendono il disco magicamente appetibile e accessibile a tutti.

Questa testimonianza d'arte è divisa in brani più introspettivi, come "Not every pain hurts", intro di fisarmonica tipo musica da circo e "Stolzes Herz", ancor più deprimente; e canzoni più articolate, complesse e dure, come Siehst du mich im licht, Make it end, Deine nahe, che, come detto prima, rispecchiano vari elementi Prog, soprattutto in termini di lunghezza.

Ottimo album di questo duo tedesco. Non vi aspettate il pop dei Cure o il metal dei Nightwish ed Evanescence, perchè l'unica cosa che li accomuna è il malessere che sanno trasmettere alle nostre menti; inoltre, non si fa uso delle tastiere, "a differenza di molti altri", ed usano al loro posto, arrangiamenti tipicamente appartenenti alla musica classica. 

Voto 8.5 by TWolff.

 

 

Commenti: 2 (Discussione conclusa)
  • #2

    HELLHAMMER (martedì, 02 ottobre 2012 16:14)

    bello molto sinfinico e accattivante

  • #1

    samantha (sabato, 29 settembre 2012 00:56)

    beautiful cd i adore

Il disco di cui sto per parlare è stato per la band in questione, i Paradise Lost, non un disco "normale", ma bensì il disco che ha creato la spaccatura tra i fans ed il punto di svolta fondamentale della loro carriera. Dopo L'enorme successo riscosso con il capolavoro Draconian Times i Paradise Lost mutano di nuovo pelle e pubblicano nell'estate 1997 "One Second".

Il disco destò subito moltissime polemiche. I fan della band si divisero in due fazioni. I seguaci più ortodossi mossero accuse di commercializzazione, quelli più aperti invece apprezzarono il cambiamento continuo nel sound della band. Infatti il problema di questo disco è quello di essere il capitolo che segna l'allontanamento dal Metal da parte del gruppo di Halifax, Metal che riappare in qualche brano qua e là ma nulla più. Il sound si fa più morbido e l'aggressività diminuisce drasticamente rispetto al disco precedente. Le chitarre cedono parte del loro spazio che va a favore di influenze elettroniche e synth-pop.
Questa è sostanzialmente la grande novità di questo "One Second". Per la prima volta i Paradise Lost ricorrono all'eletrronica e alle influenze dark, scelta che verrà mantenuta e si evolverà forse anche troppo nei dischi successivi. Il risultato è tuttavia un Metal/Rock molto Dark tutt'altro che deprecabile. Ciò che rimane in evidenza è infatti la capacità della band di scrivere pezzi molto orecchiabili, ma non scontati o banali.

La carta vincente di questo disco è il massiccio uso di ritornelli melodici (azzeccati alla grande dal singer Nick Holmes, che rinuncia ad usare la sua voce in modo più aggressivo) e di facile ascolto. Ne è prova ad esempio l'iniziale title-track toccante ballata elettronica che mantiene viva la tradizionale vena malinconica del gruppo. I pezzi sono vari, coinvolgenti e in alcuni casi addirittura esaltati, vedasi "Say Just Words" trascinante pezzo Metal dal ritonrnello anthemico, o l'inquietante "Blood Of Another". Il disco ha comunque i suoi punti deboli che stanno forse nell'essere in alcuni passaggi troppo edulcorato e melodico, passaggi che se sono belli al primo ascolto alla lunga mostrano qualche pecca evidente.

Un album in sostanza sfortunato, che soffre tantissimo il confronto con il precedente Draconian Times (disco di caratura nettamente superiore) e che all'epoca destò troppe divisioni, troppe polemiche per essere giudicato con occhio obbiettivo, ma che comunque ha segnato un passo importante nel panorama Gothic grazie alla qualità di un pugno di canzoni che tuttora hanno influenza sui gruppi attuali della scena.

Voto 8.5

TWolff

Erano passati solo pochi mesi da quando, con l'uscita dello storico "Agent Orange" ('89), Tom Angelripper e soci si sono tolti lo sfizio di far fare un bel giro in bicicletta senza sellino a molti dei loro detrattori.

Da un lato, infatti, l'ingresso in formazione del chitarrista Frank "Blackfire" Gosdzik ha saputo spazzare via anche le ultime incertezze compositive che la band si trascinava dietro sin dai tempi dell'EP d'esordio "In The Sign Of Evil" ('84, ad oggi tra i massimi esempi di inettitudine tecnica, bruttezza dei componenti e imbarazzante mediocrità di liriche: indimenticabile l'inno onanistico-nichilista: "I masturbate to kill my self"), dall'altra, "Onkel" Tom ha imparato a vestire in maniera eccellente i panni del frontman, maturando notevolmente anche come paroliere. Insomma, con l'appropinquarsi della fine del decennio, i Sodom possono affrontare la scena metal nazionale ed europea a testa alta, con accresciuta dimestichezza in fase di songwriting e, cosa che non fa mai male, una buona fetta di pubblico che fa il tifo per loro.

Proprio durante il tour promozionale di "Agent Orange", però, il raggiunto equilibrio del terzetto si spezza: Blackfire, su invito di Sua Maestà Mille Petrozza, decide di unirsi ai cugini Kreator, con i quali registrerà, l'anno successivo, l'ottimo "Coma Of Souls". Per tale motivo, "Better Off Dead" si presenta già sulla carta come un disco, se non di rottura, certamente di allontanamento rispetto a quanto fatto sentire fino ad allora dalla band.

L'attacco della opener "An Eye For An Eye" fuga ogni dubbio: bastano poche battute, un paio di giri di chitarra e una manciata di tupa-tupa per cogliere gli effetti di una piccola rivoluzione intervenuta a livello di produzione. Il veterano Harris Jhons (tra i fautori, tra l'altro, di quell'apocalisse sonora che fu "Consuming Impulse" dei Pestilence), richiamato in sala comandi dopo aver messo la propria firma nel disco precedente, opta infatti per un taglio sonoro più secco, per certi versi più pulito e stranamente compresso, che pare quasi volersi lasciare alle spalle le sonorità ruvide e vagamente zanzarone degli album precedenti. Tale rinnovata veste sonora, sebbene abbia lasciato interdetti molti puristi del genere, a mio avviso non compromette affatto la qualità complessiva del disco e, anzi, si attaglia perfettamente allo stile del nuovo chitarrista Michael Hoffman .

Proprio il differente approccio riservato da quest'ultimo alla chitarra, infatti, costituisce un ulteriore punto di rottura con le precedenti produzioni del terzetto. Nella sua tutto sommato breve carriera nei Sodom, il buon Frank Gosdzik era sempre riuscito, a mio avviso, ad utilizzare al meglio i "pochi mezzi a propria disposizione": il suo era uno stile piuttosto riconoscibile, dal vago sapore proto-blackeggiante, con ritmiche grattuggiose su corda singola e armonizzazioni su intervalli di quarta, cui si contrapponevano assoli, spesso in tapping, nei quali trovava sovente spazio una certa melodia, una certa orecchiabilità. Hoffman, dal canto suo, preferisce evitare imbarazzanti tentativi di scopiazzatura e opta per un lavoro chitarristico tutto sommato personale che, da un lato, nei pezzi più tirati, si presenta costruito su ritmiche chirurgiche, dal retrogusto quasi statunitense ("Shellfire Defense" e "Tarred And Feathered"), e, dall'altro, strizza l'occhio, in maniera neppure troppo velata, all'heavy più tradizionale, se non addirittura all'hard rock tout court.

Sarà proprio questa notevole varietà di sounds e generi a fare da croce e delizia per "Better Off Dead". Preso nel suo insieme, infatti, il disco si palesa forse addirittura fin troppo variegato per gli standard dell'epoca: da una lato, la velocità di furiosi lampi speed/thrash (quali la tiratissima "Bloodtrails"), in cui la band mostra quanto ancora possa sentirsi a proprio agio con tempi e soluzioni puramente dedite all'aggressività sonora, dall'altro, quella mescolanza di passione e rispetto che da sempre lega a doppio filo il leader Angelripper con le origini del genere metal. Nel disco trovano, infatti, posto due cover: la splendida "Turn Your Head Around" (gioiellino perduto della discografia dei Tank, consigliatissima band dallo stile spudoratamente motorheadiano) e, addirittura, in pieno hard rock revival, "Cold Sweat" dei Thin Lizzy. Ma, ancor di più, è la presenza di mid/mid up tempos quali "The Saw Is The Law" e "Resurrection" (nel cui finale addirittura fanno la loro comparsa dei coretti vagamente epici assolutamente inconcepibili fino al disco precedente!), a segnare maggiormente la distanza con quanto fino ad allora fatto sentire dal terzetto.

Anche negli episodi più violenti, poi, il disco pare permeato da un approccio più ordinato e più ragionato, meno spasmodico. L'accresciuta dimestichezza con i propri strumenti (i progressi di Witchunter alla batteria rimangono ancora oggi documentati nelle migliori enciclopedie metallare alla voce "Miracolo"), una maggiore maturità compositiva e il venir meno di quella specie di necessità di suonare "cattivi" a tutti i costi (basti per tutti il cantato di Angelripper, qui molto più misurato e, ancor più che in passato, in puro Lemmy style), fanno sì che l'album possa godere di un groove e di una immediatezza del tutto nuovi per il sound della band.

"Better Off Dead", pur non potendo fregiarsi del titolo di capolavoro, rimane a tutt'oggi un ottimo disco. È ben suonato, vario, forse solo penalizzato da un numero eccessivo di canzoni che, se non altro ai primi ascolti, lo viziano di una sorta di "dispersività", ma, soprattutto, rappresenta il tentativo - perfettamente riuscito - di una band di staccarsi dall'intransigenza che ne aveva caratterizzato il sound nei dischi precedenti, senza per questo rinunciare alla propria natura estrema. voto 8

Dani75

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  • #2

    helly (martedì, 25 settembre 2012 01:29)

    disco fighissimo, sembra si siano fatti influenzare dai tankard i sodom di sto disco

  • #1

    anfetamina (martedì, 25 settembre 2012 01:27)

    ARTISTA: SODOM
    ALBUM: BETTER OFF DEAD
    GENERE: THRASH METAL
    BEST SONG: UNO DEI MIGLIORI ALBUMS DELLA BAND. THRASH METAL SENZA FRONZOLI GREZZO E VELOCE.
    SEZIONE RITMICA: 8,9
    SEZIONE SOLISTA: 8,7
    SEZIONE VOCALE: 8,7
    VOTO FINALE: 8,7

I Theatre of Tragedy, forse il gruppo del “Beauty and The Beast Metal” più influente di sempre nel 1996 pubblicano il loro miglior lavoro: “Velvet Darkness they Fear”, che farà accrescere al gruppo norvegese la sua schiera di fans. Nel 1998 pubblicano un album che si distacca da buona parte che il Teatro Della Tragedia fece precedentemente, spiazzando buona parte della critica e dei fans: Aegis, un album dedicato a 9 donne dell’antichità.

I pezzi sono filanti, immediati e ritmati, non più ostici come in passato , le atmosfere sono meno oscure e opprimenti e l’elettronica, che diventerà la colonna portante delle produzioni future, inizia ad essere utilizzata, anche se solo marginalmente. Raymond Rohonyi abbandona il suo cantato in growl a favore di uno pulito ma molto basso mentre Liv Kristine migliora ancor l’espressività del suo canto. Insomma parliamo sempre di gothic metal, ma un gothic molto più sognante e dinamico. I fans, forse spiazzati dal cambiamento, non capirono l’ottimo livello di ispirazione raggiunta dal combo su Aegis.

Il cd si apre con “Cassandra” un monolite, mentre si prosegue con l’ottima "Lorolei", un pezzo dinamico che ha il suo punto di forza nelle note di tastiera e nel ritornello di sicuro impatto. Si prosegue con “Angelique” un pezzo atmosferico, cadenzato e decadente e più in linea con i canoni del Gothic metal classico. Liv canta in maniera divina. “Aoede” invece è un pezzo dalle atmosfere futuristiche, anche grazie all’utilizzo di samples elettronici. In questo brano troviamo i riff più riusciti (e pesanti) dell’intero lavoro. La quinta traccia, “Siren”, si aggiudica la palma del pezzo migliore dell’album, grazie soprattutto alle bellissime tastiere e al ritornello, dove la Sirena del metal per eccellenza sforna un'interpretazione davvero intensa ed emozionante. Mentre i suoi vocalizzi si disperdono nell’aria nella mia mente appare l’immagine di una sinuosa sirena intenta a nuotare nelle profondità del mare. “Samantha” è un pezzo davvero ballabile, corredato da un ritornello davvero catchy, ma non per questo meno riuscito, anzi. In effetti questo pezzo anticipa ciò che il combo proporrà negli album seguenti. “Venus” è l’altro picco dell’album: le voci di Liv e Raymond si intrecciano in maniera divina in un'atmosfera oscura. “Poppea” è un brano molto sognante e riflessivo, che disegna paesaggi dell’antichità. Il cd si chiude con la buona “Bacchante”, che presenta davvero un finale da brividi, grazie ad un coro molto gotico.

Se cercate Gothic Metal di qualità non affannatevi: troverete ciò che cercate in Aegis. voto 8

Dani75

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  • #1

    TWollf (martedì, 25 settembre 2012 05:52)

    Disco dolce e melodico. Grande interpretazione dei TOT e soprattutto della cantante. Voto 8,5.

Love will tear us apart, diceva qualcuno un po' di tempo fa. 
Frase quantomeno azzeccata per sintetizzare un disco che parla d'Amore, un amore intenso, un fuoco che non brucia più come una volta e che porterà a una fine drammatica. 
La copertina ci mostra quell'Arlequin, simbolo del gruppo svizzero praticamente da sempre, che porta tra le braccia una donna ormai priva di vita. 
L'album si apre con Am Ende der Stille, pezzo che, in un crescendo di musica orchestrale, introduce il primo atto dell'opera e la "trama" vera e propria dell'album. Nel bellissimo pezzo successivo Alleine zu Zweit Tilo Wolff, autore di testi e musiche dei Lacrimosa, sostenuto dalla moglie Anne Nurmi, canta di come il loro amore non sia più forte come prima, un rapporto incrinato dall'abitudine e dall'apatia, di come pur essendo in due, stiano diventando sempre più distanti l'uno dall'altro e, in definitiva, soli. Il tutto in un intreccio altamente evocativo di chitarre e archi. In Halt mich il desiderio di una passione che non c'è più si trasforma in rabbia, e il ripetuto "amore, abbracciami!" da dolce diventa violento in un finale esplosivo. Con The Turning Point , l'unica canzone in inglese del disco scritta dalla bella Anne si chiude il primo atto e si entra nel "vivo", lui l'ama troppo e decide di ucciderla: un giro di basso inizia e ci accompagna per tutta la magnifica Ich Verlasse heut’ Dein Herz che culmina con un bellissimo e lungo momento strumentale, questa seconda parte finisce con Dich zu töten fiel mir Schwer e con la donna che giace a terra moribonda nel proprio sangue. 
Terzo atto, la redenzione e il finale: Sanctus, titolo che come lo stesso nome del gruppo, tradisce le influenze che Tilo ha avuto dalla musica classica, specialmente da quella di Mozart. Tra cori in latino, parti sinfoniche eleganti, maestose e inserti gotici passano quindici minuti di pura gioia per le orecchie, per un requiem che potrebbe benissimo concludere il disco. Invece ecco che parte sommessa Am Ende Stehen wir zwei, "l’ amore mi porterà dove la sofferenza consuma ogni speranza". 
C'è una luce in fondo al sontuoso corridoio in copertina, un'altra possibilità, una nuova vita.

 

Stupendo album, uno dei più belli sia di composizione che di testi. Voto 9 TWOLFF

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  • #2

    bonfire (mercoledì, 03 ottobre 2012 01:35)

    disco veramente composto bene, non mi piace qualche pezzo ma la qualita' della musica e' indiscutibile

  • #1

    Anne (martedì, 25 settembre 2012 21:49)

    DISCO DIVINO VERAMENTE. UNA VERA E PROPRIA PIETRA MILIARE DEI LACRIMOSA. DO UN 10 PIENO

Conobbi i "The sins of thy beloved" acquistando, quasi per caso, l'album "Perpetual desolation".

Devo ammettere che rimasi quasi pietrificato alla fine dell'ascolto; non avevo, fino a quel momento, mai udito nulla di tanto artisticamente sbalorditivo. E' stato come comporre un puzzle, ogni pezzo combaciava perfettamente all'altro, gli incastri sonori erano a dir poco perfetti. Mi incantarono a tal punto che decisi di conoscere tutta la discografia per poter acquistare tutti i loro lavori. Sfortunatamente scoprii che quello era solo il loro secondo album, il primo, per l'appunto, si intitola "Lake of sorrow", anche se in precedenza avevano messo in commercio un EP dal titolo "All alone".

Questo magnifico album di cui sto per dare un mio giudizio, mi ha spinto, ed è finora la seconda o al massimo la terza volta, a scrivere personalmente la recensione. Potrei anche non divulgarmi molto, ma è molto complicato esprimere a parole ogni singola canzone dell'album. Comincio col dire che, a differenza del gothic aggressivo dei tanto amati Tristania, "Lake of sorrow" si presenta molto dolce e malinconico.

La sinfonia dei brani è molto accentuata in tastiere che ti struggono l'animo fino a catapultarti in un abisso di appagamento estremo.

Ma quello che da ai brani il tocco etereo e celestiale è la splendida voce della cantante, quasi come se sussurrasse quando canta, e il magnifico violinista che ci regala dei passaggi e delle melodie davvero uniche e inimitabili. 

Il cantato maschile è messo al punto giusto e non si prolunga molto nei brani ma comunque la voce è ben marcata come contorno alla musica. I brani sono 8 ma sono molto lunghi, ognuna dura 7 o 8 e anche 9 minuti, infatti un'altra specialità dell'album è proprio questa, e cioè che ogni canzone ti accompagna per tanti minuti senza mai rivelarsi ripetitiva o noiosa. Anzi, quasi ti dispiace quando termina perchè vorresti che continuasse con quella melodia ancora per un pochino.

La canzone "All alone" invece, è secondo me il culmine dell'album, il confine tra realtà e sogno, il limite che ti spaventa oltrepassare per paura di andare troppo oltre. Comunque, in conclusione, questo album per gli amanti del gothic malinconico, è una vera e propria ricchezza di sonorità. E, siccome io adoro il gothic triste, questo album merita un 10. TWOLFF

Ne è passata di acqua sotto i ponti dagli albori black. Questo album segna la definitiva consacrazione dei Tiamat come uno dei maggiori esponenti del Gothic Rock attuale. Non lasciatevi trarre in inganno dal nome dell'album, Edlund e soci, infatti, oltre ad abbandonare le atmosfere black degli esordi hanno anche definitivamente messo da parte la recrudescenza antireligiosa, ed anticristiana in particolare, raddrizzando un po' il tiro e spostando le loro invettive nei confronti della chiesa come istituzione, a loro dire, creata dagli uomini a discapito di altri uomini.

Tralasciando la filosofia di Johan Edlund, mente e singer dei Tiamat, musicalmente, a mio parere, i Tiamat con questo "Judas Christ" sono giunti alla piena maturazione. La novità rispetto ai dischi precedenti è che, dall'ascolto, traspare un'aria complessivamente più positiva e fresca sia dal punto di vista musicale che dei testi. Le sonorità decadenti non sono state completamente abbandonate e trovano campo in canzoni come "The Return of the Son of Nothing" e "So Much For Suicide". I picchi di quest'album, a parere di chi vi scrive, sono tuttavia da ricercare in quelle songs da cui emerge il nuovo corso dei Tiamat e cioè nella hit "Vote For Love", scritta dallo stesso Edlund per lasciare ai posteri un'immagine positiva di sè stesso, in "Angel Holograms" dal riff cadenzato e deciso, "Spine" e in "I am in Love With Myself", canzoni in cui eccelle il timbro vocale di Edlund (molto somigliante a quello di Andrew Eldritch). L'album si chiude con due splendide ballad, "Heaven Of High" e "Too Far Gone", songs molto dolci e scanzonate.

In conclusione un ottimo album per chi, come il sottoscritto, sente la mancanza di gruppi come i Sisters of Mercy, di cui, a mio modesto parere, i Tiamat sono i più degni successori.

 

Molto molto ben fatto. Soave. Voto 9.

TWolff.

 

Con l’arrivo del nuovo millennio (era il 2000) i Theatre Of Tragedy, formazione che fino a quel momento aveva regalato degli ottimi album di gothic/Doom, decisero di dare un taglio netto con quelle sonorità e diedero alle stampe “Musique”, un lavoro che fece gridare molti allo scandalo, infatti la band mise in campo una miscela sonora fatta di corposi elementi elettronici (a tratti techno) ai quali si associava un retrogusto oscuro fatto di tentazioni dark-goth.

 

Ritrovare questo album oggi dopo nove anni dalla sua uscita originaria fa un certo effetto, perché l’album, nel suo piccolo, anticipò molte tendenze sonore. “Musique” è un concentrato di sensazioni plastiche, fredde e distaccate, alle quali si contrappongono le calde inflessioni vocali di Liv Kristine e un corpus di riffs elettrici. Dall’associazione di queste due componenti nascono delle ottime songs come l’oscura “City of Light”, la fosca e paranoica “Fragment” e l’elettro-pop della titletrack, che tendono tutte a fare da contorno rispetto a quel piccolo capolavoro che è “Crash/Concrete”, ove si rivedono i Rammstein. Brani davvero ottimi, soprattutto per il proprio essere dotati di una vena fortemente innovativa all’epoca dell’uscita. Oggi la Metal Mind propone questa ristampa, che contiene bonus tracks  ed una nuova confezione in digi pack, quindi se non lo avete fatto al tempo, è giunta l’ora di far vostro questo album, ancora oggi pieno di spunti interessanti. Un ottimo album, consigliato però ad un audience non legata ai concetti di genere e stile.

 

Davvero stupendo. Voto 9. 

TWolff.

 

Iniziare una recensione ponendo una domanda retorica forse non è il massimo dal punto di vista musicale, ma vi chiedo di perdonarmi, non posso farne a meno.

Che cos'è l'originalità in musica? Forse la costante tensione verso una ricerca interiore che possa estrapolare e quindi tradurre in note sentimenti personali, angoscia, dolore rabbia, passione o anche la contemplazione dell'ignoto. O più prosaicamente la determinazione nel miscelare sonorità scevre da punti di contatto.

Forse quest'ultima considerazione può aiutarci a capire come Mike Browning, batterista/cantante dei Nocturnus (transfuga della primissima incarnazione dei Morbid Angel), Louis Panzer (tastierista) più la magnifica coppia di asce Mike Davis/Sean McNennery, trovarono l'ispirazione per addizionare al death metal ancora intriso di rimandi thrash bay area, un uso cotanto prominente di spettrali keys, non limitate a semplice strumento di contorno adito a partiture di tappeti sonori in intro ma suonate in modo quasi "solistico", da vere protagoniste del songwriting.

E tutto ciò già agli albori della diffusione del death metal stesso.

"The Key", l'album in oggetto di recensione, è datato 1990, in prima edizione su vinile: nessuno in quel periodo si era mai spinto a tanto e forse per questa loro precocità hanno pagato un discreto dazio in termini di stabilità interna al gruppo e di riconosciuta fama. Solo dopo il secondo full lenght "Threshold" la critica ha apprezzato fino in fondo la proposta stilistica non ortodossa dei nostri, forse in ritardo in quanto il magic moment creativo della band era già stato superato e lo split subito dopo.

"The Key" si presenta tematicamente diviso in due parti distinte: diciamo, il lato A presenta una serie di visioni satanico/fantascientifiche/ambientale di distruzione planetaria e ritorno dalla morte. Mentre nel lato B assistiamo alla creazione di un vero e proprio mini concept, nel quale si narra la storia di una terra morente a cause delle troppe sofisticazioni tecnologiche (che hanno incrementato la capacità di uccisioni di massa e per ragioni di ricerca, nonché un inquinamento letale), dal quale, durante un'invasione aliena, un uomo riesce a scappare usando una macchina del tempo per ricercare l'origine del male, l'inizio della lenta ed inesorabile deriva dell'umanità: la nascita di Cristo. Ucciso il quale, il continum spazio temporale cambia lo scenario dell'evoluzione umana e porta ad una nuova e satanica genesi. Agghiacciante.

Per ciò che concerne il lato prettamente musicale, anche se nel caso dei nostri è difficile separare il lato lirico da quello strumentale, visto l'assoluta compenetrazione fra le due componenti, va subito citata la prima stranezza: l'album non presenta linee registrate di basso, Jeff Estes entrerà in pianta stabile solo dopo la conclusione dei lavori di recording di "The Key".

Per il resto siamo di fronte ad un capolavoro assoluto, dove le tastiere (di cui abbiamo già parlato sottolineandone il coraggioso impatto e l'assoluta importanza nell'economia dell'album in sé) e le chitarre, magnifiche, penetranti, suonate divinamente e sempre pronte ad assoli od a sottolineare cambi di tempi ed il susseguirsi dei riff portanti, costruiscono un costante rincorrersi, un intreccio dal sapore fantascientifico/horrorifico estremamente originale, che un po' ricorda i Voivod (seminali!!!) di "Killing Technology" mischiati con un'entità thrash/death molto raffinata e ricercata, difficilmente riscontrabile allora in altre realtà del tempo. Brani come l'agghiacciante opener "Lake of Fire" o come la più tradizionale "Before Christ , After Death", danno l'idea della portata storica della release, per non parlare di songs come "Andromeda Strain" (a mio parere il migliore dell'intero lavoro) o della diabolica "Standing in Blood".

In tutta onesta una nota di demerito mi sento in dovere di farla: la prestazione dietro le pelli del buon Mike Browning è alquanto deficitaria e mi dispiace, ma si sente più volte la doppia cassa non seguire il ritmo e la velocità degli altri strumenti, più in alcune partiture che dovrebbero essere dei beat blast, il rullante scompare completamente. Per quanto riguarda la prestazione vocale direi che il suo growl cibernetico e strisciante ben si confà con l'atmosfera generale dell'album.

In conclusione "The Key" è un Lp avere assolutamente. voto 8

Dani75

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  • #1

    rexor (giovedì, 13 settembre 2012 21:24)

    ebbene si,e'lui il precursore del metal estremo.album che apprezzo molto per le sue tendenze,,,futuristiche,sperimentali,,,che a quei tempi nessuno si sarebbe sognato di intraprendere.come dice dani75 da avere siiii,ma se lo trovi?io l'ho trovato e costa un occhio della testa.grande lavoro.

poco dopo l'uscita di ,,,raise raise,,,i rammstein si ripropongono con un'opera a dir poco stravolgente.rosenrot...un lavoro,che a mio avviso,sembra essere,(proprio come raffigura la copertina,glaciale,una rappresentazione,di vera e propria,forza,come dire potenza,,,, senza troppi fronzoli,,, della natura,spietata,assoluta come solo in alcune zone del mondo sa essere.questo, e'il contenuto di questo album,un lavoro che richiama quelle atmosfere cupe e plumbee,di cui sono fatti determinate aree del globo.come la potente ,,,,wo bist du,,,,e la granitica ,,,,spring,,,,tracce di pura maestranza.in questo album,si notano,molte innovazioni ed esperimenti,come il duetto con la cantante dei texas

sharleen spiteri,grande esempio di malleabilita'ed intesa.tutto sommato il lavoro risulta a mio avviso,qualcosa di straordinario,assolutamente perfetto.come al solito i singoli componenti,non deludono mai,maestri nelle loro parti.in fine chiudendo,i rammstein sanno evolversi,e trasformarsi nell'adattarsi ai  tempi non risultando mai paranoici,o ripetitivi,a differenza di molti.voto 9,5    by rexor

 

Non c'è alcun dubbio, credo, sul fatto che i Rammstein ad ogni lavoro sfornato, sanno dare sempre qualcosa di più. E' inutile cercare di trovare lacune laddove non ne esistono, nè tantomeno non ammettere che, a mio parere, siamo di fronte ad una delle più significative band in loro ambito. Ineguagliabili nel loro campo perchè ogni album ha una marcia in più. Voto 9.TWolff

La lotta più gotica ed antica della storia del metal non è mai stata rappresentata con tanto vigore e con tanta intensa nostalgia quanto dal duetto costituito dagli indimenticabili teutonici Tilo Wolff e Anne Nurmi.

Lotta tra Amore e Morte, principi fondatori e promotori della vita che hanno il sacro compito di renderla unica, perfetta e divina. I Lacrimosa non si limitano ad affiancare alla vita perfetta tutto ciò che risulta al suo interno dettagliato e minuzioso ma introducono l'ascoltatore in una specie di abisso nel quale le sadiche esasperazioni sentimentali sono d'obbligo e si pongono come obiettivo primario quello di rendere il viaggio del fortunato bello perchè costituito gratuitamente da momenti di raffinatezza, dipurezza, d'eleganza e di splendore. Un gruppo che, oggigiorno, non inciderebbe album se, a partire dal primo lavoro ufficiale, non fosse riuscito nell'intento di consacrare nell'ascoltatore fortissime emozioni, seppur decadenti ma che non fanno altro che purificargli l'animo.

Con quest'uscita i Lacrimosa festeggiano il loro quindicesimo anno di operatività sempre all'insegna di un gothic molto oscuroselvaggio e tenebroso che, a differenza di "Stille", minimizza l'uso di chitarre elettriche ed estremizza tastiere e lingua d'origine del leader (tedesco) al fine di conferire più rudezza ai brani. Sarebbe enormemente preferibile ascoltare il suddetto album possibilmente al buio poichè al suo interno amalgamano passaggi rapidi di pura riflessione sino a giungere a momenti estremi di emozione che hanno il compito di rendere il tutto quanto più estetico possibile. Nonostante non sono riuscito a dedurre se l'artwork raffigura un angelo portatore di luce o un'entità delle tenebre, devo però ammettere che ne sono rimasto completamente affascinato e mi vergognerei quasi a dirvi che soltanto la copertina mi ha indotto a conoscere, un po' di tempo fa, sia la band che di conseguenza questo lavoro e i loro numerosi precedenti. Band che son riuscito ad approfondire nell'arco di un mese e che mi ha portato ad una conclusione che risulta tutt'altro che negativa.

In "Kelch der Liebe" e "Lichtgestalt" sono lampanti le influenze che derivano da "maestri" come My Dying Bride Cathedral nelle quali si nota non solo il corretto e minuzioso lavoro sulle tastiere, non eccessivamente profuse ma significative, ma anche per un dichiarato e costante amore di fronte all'oscurità che sfocia in un suono cupo ed introverso, per l'appunto molto riflessivo. In “Letze ausfahrt” il ritmo sale decisamente rendendo la canzone maggiormente vicina al metal con l’utilizzo di chitarre molto distorte e una voce maggiormente incisiva e sublime che premia maggiormente la potenza a discapito della melodia. Notevole imponenza all’aspetto symphonic della musica viene invece conferito nella lunghissima “Hohelied der liebe” in cui i cori gregoriani nonchè polifonici perfettamente strutturati duettano con la voce del leader che merita di essere ascoltata dal momento che diviene rispetto alle altre tracce molto più ruggente, suadente e più triste che mai. Parti strumentali e notevolmente atmosferiche si alternano a momenti più ritmati e incisivi. Questa canzone può essere vista come un’opera a sé stante perfettamente archiviata ed eseguita in tutte le sue innumerevoli parti. In quest'ultimo album Anne Nurmi ha la capacità di sedurci e conquistarci all'inverosimile con brani parzialmente in lingua inglese come "My Last Goodbye" e "The Party is Over" dove agonia e dolore, espressioni di sconfitte subite ed atteggiamenti introversi di fronte alla realtà che ci circonda, abbandonano tutte le forme di quella speranza alla quale si cerca di arrivare insistentemente ma invano nelle rispettive decadenti tracks. Se il Regno dei Morti esistesse per davvero quest'album sicuramente sarebbe il benvenuto.

Dopo capolavori come "Satura", "Inferno" ed "Elodia" ecco un'altra pietra miliare che i fan difficilmente dimenticheranno.

 

Non mi divulgherò con le parole.Dico solo:

STUPENDOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO.

Tilo Wolff è un genio compositore.

Ovviamente da 10+. 

TWolff.

 

Dopo il CD d’esordio intitolato “Suspiria” del 2000 e il MCD “Conflict of Interest” del 2002, oltre naturalmente ai cambiamenti nella line-up che a metà del 2003 hanno portato la cantante Alexandra ad allontanarsi dal gruppo, subito sostituita dall’attuale Stephanie, i Darkwell giungono a noi con la loro nuova prova in studio intitolata “Metatron”.
Il riferimento del titolo all’angelo conosciuto anche come “la voce di dio”, è evidente anche nella copertina in cui è l’avvenenza della nuova singer a prestarsi per impersonare la creatura celeste. Oltre che naturalmente nelle canzoni, spesso legate a temi biblici come la titletrack “Metatron” o “Crown of Thorns”, che già nel titolo permettono una facile comprensione dei temi trattati.

Cominciamo subito a parlare della canzoni che compongono questo album, tocca a “Fate Prisoner” aprire le danze e lo fa con una rullata di batteria che sembrerebbe presagire quasi dei ritmi al limite del prog, tutto si instrada invece verso un metal di stampo molto classico e molto melodico. La batteria però sia su questo brano che su tutte le successive tracce si rende abbastanza protagonista creando sempre passaggi molto interessanti di sapore quasi prog.
Decisamente più rock ed aggressiva è la seconda “Strange”, la cui intro però forse strizza fin troppo l’occhio all’inizio di “It’s My Life” di Bon Jovi, perfino il suono delle chitarre è praticamente lo stesso. Per fortuna poi il brano si instrada verso melodie più originali e personali del gruppo, sopra tutto rimane sempre rimarchevole l’apporto della batteria che forse avrebbe meritato maggiore spessore in fase di mix dei volumi degli strumenti.
La voce di Stephanie rimane però su tutto il disco il fattore trainante di tutte le canzoni, come dimostra anche la titletrack “Metatron”, uno dei brani più dolci dell’intero cd e in cui la voce della singer, spesso accompagnata solo da un pianoforte, dà probabilmente il meglio di se passando attraverso vari registi.
Sicuramente meritevole di menzione è anche la quinta traccia “The Machine”, forse la mia canzone preferita di questo album, che presenta un ritornello estremamente orecchiabile che ti si pianta subito in testa.
In generale si tratta probabilmente di uno degli album più melodici e facilmente ascoltabili che abbia mai sentito in vita mia, sicuramente si tratta di un grande merito di questa band perchè a livello di song-writing le composizioni sono mediamente di una certa complessità. Eppure l’effetto finale generato sull’ascoltatore è quello di una estrema scorrevolezza e dolcezza dei brani, merito quest’ultimo probabilmente imputabile principalmente alla voce di Stephanie.
Di contro però bisogna ammettere anche che molte linee melodiche e molte linee vocali tendono un po’ ad assomigliarsi dando in questo modo sicuramente un tono di grande uniformità all’intero disco, ma anche generando un po’ di ripetitività e quindi di stanchezza nell’ascoltatore.

Dal punto di vista della produzione ci troviamo di fronte a un prodotto davvero di primo livello, il suono è veramente potente quando le composizioni lo richiedono e al contempo si è riusciti a rendere nel migliore dei modi una voce come quella di Stephanie a tratti un po’ particolare e forse quasi troppo delicata.
Dal punto di vista dei suoni veri e proprio sinceramente forse non ho apprezzato troppo i tanti riferimenti. Da una parte per le chitarre che, come si diceva prima, suonano alla Bon Jovi, e dall’altra per le tastiere che hanno quasi sempre lo stesso suono dei Dream Theater. Probabilmente scelte sonore un pochino più orientate all’originalità avrebbero giovato maggiormente al disco evitando frequenti sensazioni di dejà-vu.

Per concludere si tratta di un album destinato agli estimatori del genere, si tratta di un buon cd che può riservare diverse emozioni. Sicuramente uno dei suoi punti di forza è dato dalla stupenda e delicatissima voce della nuova cantante Stephanie e per questo consigliato a chi sa apprezzare le voci femminili.

 

Tracklist:
01 Fate Prisoner
02 Strange
03 Metatron
04 Crown of Thorn
05 The Machine
06 Hope Unborn
07 Nothingness
08 Far Cry
09 Last Glance

 

E' proprio vero, io che sono amante del genere trovo che questo sia un album molto bello. Voto 8.

TWolff.

 

Mi si perdoni l'assolutismo dell'affermazione ma “Horrorscope” è uno di quei dischi che ogni persona assetata di thrash metal dovrebbe avere nella propria ‘Cd-teca’. Oltre alle esclusività stilistiche che rivestono questi undici brani, il quinto full-length della carriera degli Overkill incarna una delle più azzeccate e brillanti interpretazioni del thrash metal statunitense. Questo, perché si discosta parzialmente dai classici comparti thrash-core che, da sempre, hanno influenzato le produzioni del movimento newyorkese e, nel contempo, raccoglie lo stretto necessario dagli ormai abusati artifici compositivi adottati dalla Bay-Area, soprattutto in riferimento all'aspetto produttivo. Il tutto è impreziosito dalla tanto oscura e ossessiva aurea che ha portato il precedente “The Years Of Decay” nella ‘top thrash ten’ di tutti i tempi.

Ma andiamo per gradi...
Rispetto al capolavoro precedente, la media dei bpm aumenta. Rispetto al più recente passato della band, poi, questa maggior velocità canonizza il disco, fermo restando l'ormai inalterato e distintivo ‘stile Overkill’. Proprio quello stile che, grazie anche alla timbrica inimitabile di Bobby “Blitz” Ellsworth, da “Fuck You” del 1988 in poi, ha decretato l'entrata degli Overkill nel giro di ‘quelli che contano’.

Ci sono però altri due perché che aiutano a quantificare il notevole peso qualitativo che “Horrorscope” riveste all'interno della discografia della band e nel movimento artistico del tempo. A parere di chi scrive, queste due osservazioni sono concettualmente combinate. È forse ammissibile ammettere che “Horrorscope” rappresenti il punto di partenza di una seconda ‘Era Compositiva’ della band di New York City. A certificazione di quest'ipotesi è possibile chiamare in causa l'innovazione e la marcata personalità che ha contraddistinto l'album in un momento dove tantissimi gruppi producevano thrash metal sulla scia dei masterpiece usciti qualche anno prima. Tutte queste band sono morte nel giro di un anno o giù di lì, invece, “Horrorscope" è sopravvissuto.
Come se non bastasse, la formazione che fino a un anno prima (1990) contava quattro membri, nel 1991 ne annovera cinque. Via Bobby Gustafson, ecco arrivare alle sei corde l'affiatata coppia Rob Cannavino/Merritt Gant; quest'ultimo, in particolare, vero trascinatore di ritmiche fresche, dinamiche e slanciate all'impatto sonoro.

A introduzione del tutto è sufficiente lasciar la parola a “Coma”, devastante opener e ormai classico d'ogni live. Seguono poi veri e propri capolavori in grado di portar con loro tutto lo stile maturato dal 1990 in poi, anzi, il meglio di questo pregresso! Si pensi al thrash-core di “Infectious”, al filo Bay-Area di “Blood Money”“Live Young, Die Free” e “New Machine”, alle granitiche influenze rock di “Thanx For Nothin”, all'ossessività della title track piuttosto che alla classe e buon gusto di una closer come “Soulitude”. Davvero un brano che sigilla e firma una delle più brillanti opere d'arte che l'intero movimento thrash metal di sempre abbia svelato al suo infervorato pubblico ribelle. Nel mezzo del tutto la cover “Frankenstein”, brano originariamente composto dal bluesman Edgar Winter, fratello del più famoso albino Johnny. Un brano che non sfigura nel lotto, data l'anima rock stradaiola che caratterizza da sempre il noto modus vivendi di Blitz (moto e strada!) e quindi l'attitudine di alcuni brani qui partecipi.

La produzione è perfetta. Opera del talentuoso produttore Terry Date, al lavoro anche su “Cowboys From Hell” dei Pantera, valorizza ogni singolo aspetto, improntando sulla potenza ogni specifico suono. Le sezioni ritmiche convergono sinergicamente e la batteria è un vero e proprio martellare d’inaudita precisione. Basso e voce restano sempre a galla, amalgamandosi all'alchemica pozione pronta a deflagrare oltre i coni dell'impianto.

Non c'è altro da dire. “Horrorscope” riveste i panni di masterpiece del genere. Assieme a tanti altri dischi, rappresenterà nel corso del tempo una delle più riuscite espressioni del thrash metal: non originale, abissale e cupo come “The Years Of Decay”, ma espressione di grande maturità e, mi si perdoni per la seconda volta, assolutamente essenziale. Lo aveva predetto un terrificante oroscopo nel lontano 1991.

  Track-list:
1. Coma 5:23
2. Infectious 4:04    
3. Blood Money 4:08
4. Thanx For Nothin' 4:07    
5. Bare Bones 4:53        
6. Horrorscope  5:49
7. New Machine 5:18
8. Frankenstein 3:29
9. Live Young, Die Free 4:12    
10. Nice Day... For A Funeral 6:17    
11. Soulitude 5:26

All tracks 53 min. ca.

Line-up:
Bobby “Blitz” Ellsworth – Voce
D.D. Verni – Basso
Merritt Gant – Chitarra
Rob Cannavino – Chitarra
Sid Falck – Batteria

 

Thrash, se non mi sbaglio, significa spazzatura. Be! devo ammettere che questo album profuma di vera maturità e professionalità dei componenti. Per me uno dei pochi dischi thrash davvero entusiasmanti.

Voto 8.5.

TWolff.

Up the irons!!!
 

Commenti: 1 (Discussione conclusa)
  • #1

    Dani75 (mercoledì, 12 settembre 2012 23:44)

    I newyorkesi Overkill hanno sempre fatto parte insieme a Testament, Exodus, Nuclear Assault, Death Angel, Forbidden e compagnia varia, della cosidetta seconda forza del Thrash Metal a stelle e striscie. Considerati sempre secondi ai grandi quattro del thrash ossia Metallica, Slayer, Anthrax e Megadeth. Bene, per attitudine, coerenza e amore per questa musica secondo me sono alla pari dei soli Slayer.

    Questo disco, il settimo della loro carriera è da considerarsi uno dei loro più significativi e rappresentativi.
    Caratterizzati, da sempre, dalla particolare voce al vetriolo del grande Bobby "Blitz" Ellsworth e dal basso pulsante e pesante di DD Verni, gli Overkill mantengono fede con questo album al loro Thrash che sprizza l'occhio al punk-hardcore più intransigente.
    I primi cinque brani sono una mazzata dietro l'altra. Coma, Infectious, Blood Money, Thanx For Nothing' e Bare Bones non lasciano tregua e scorrono veloci e adrenalinici. I due nuovi chitarristi Gant e Cannavino sparano i loro riff senza sosta alcuna, andando così a formare una prima parte di disco da dieci e lode. La title track Horrorscope è quasi doom nel suo incedere lento e pesante. New Machine è un thrash mid-tempo che indica la strada ai futuri Pantera. Frankenstein è una cover strumentale del blues di Edgar Winter. Live Young, Die Free e Nice Day. . . For A Funeral ritornano allo speed di inizio disco. Chiude il tutto la stupenda semi-ballad Solitude.

    Gli Overkill oggi, dopo quasi 25 anni di carriera, sono ancora qui a sfornare dischi onesti e coerenti, non sempre dei capolavori come questo ma sempre fieri di non essere scesi a compromessi con niente e nessuno ma consapevoli di fare quello che sanno fare meglio: spaccare le ossa a chi va ad assistere un loro concerto.

Quando usci' questo cd ero diffidente per dire la verita' credevo che  i theater avessero iniziato un percorso ascensionale irreversibile, dopo aver ascoltando il precedente lavoro, bhe!! mi sbagliavo,dopo che kevin moore abbandono' il gruppo, suo successore  fu Jordan Rudess, vero e proprio funambolo e virtuoso della tastiera, ex Dregs e soprattutto ben conosciuto da Portnoy e Petrucci dato che aveva collaborato con loro nel progetto collaterale Liquid Tension Experiment. E la differenza è udibile sin fal primo ascolto. E' Jordan il tastierista perfetto per questa prog-metal band; il suo modo molto orientato verso il progressive di intendere il suono della tastiera nel contesto di un gruppo sembra che abbia spazzato via l'impronta classica a volte pesante di Kevin Moore e l'eccessiva impronta rockettara e "casinista" di Derek Sherinian. Dunque un line-up perfetto per un disco a mio avviso incredibile. Anzittutto due caratteristiche peculiari. Scenes From A Memory è un concept disc, alla pari dei grandi The Wall dei Pink Floyd o Operation: Mindcrime dei Queensrÿche. In più è il prosegumento ideale di Metropolis Part 1: The Miracle And The Sleeper presente sul loro secondo album Images And Words. Il concept, dunque, riguarda essenzialmente il tema della reincarnazione e più in particolare gli incubi ricorrenti di Nicolas che non è altro che la reincarnazione di Victoria Page gentildonna del primo '900 che era disputata dai fratelli Adams. L'album si apre con Regression che inizia con un ticchettio che rimbalza da un canale all'altro e da un breve interludio acustico-cantato che poi darà via al vero e proprio album con il massiccio strumentale di Ouverture 1928. La prima parte scorre fluida, tra momenti di grande tensione, grandi virtuosismi e grandi stacchi melodici. Molto presente il piano specialmente in Through My Words e Beyond This Life. Ogni canzone è permeata di grande sentimento e soprattutto Fatal Tragedy si impenna verso un assolo di Petrucci al fulmicotone. La prima parte dell'album dunque si conclude con la bellissima ballata Through Her Eyes completamente acustica e con un assolo minimale ma di grande effetto e molto melodico. La seconda parte dell'album, forse anche più spettacolare della prima, si apre con il pezzo migliore dell'album e Home. Una minisuite di circa 14 minuti in cui si viene rapiti in un crescendo mistico trascinati dal riff arabeggiante della chitarra di Petrucci e da uno degli assoli più belli dell'album. Il momento più prog è senza dubbio The Dance Of Eternity dove l'influenza dei Liquid Tension è molto marcata. L'album si chiude in un crescendo incredibile con la "strana" Finally Free che sembra quasi la colonna sonora di un film dato che sono presenti veri effetti di vita normale del protagonista e anche il colpo di scena finale.   L'album è bello, trascinante, melodico ma mai scontato e con una storia interessante che contribuisce di per se stessa a renderlo imperdibile. La band è come rinata, tutti sono ai massimi livelli, specialmente Petrucci che ci regala assoli incredibili sia per tecnica che per feeling ed anche parti ritmiche molto dinamiche ed incisive. Ascoltatelo ad alto volume in cuffia magari al buio e verrete rapiti dalla potenza di questo album!

comunque riprendendo il discorso di prima la storia racconta la vita divisa in due di Nicholas, che sogna di notte fatti riguardanti una sua precedente vita. Scopre così di essere la reincarnazione di una ragazza, Victoria, vissuta e morta all’inizio del ‘900. Innamorata di un uomo – The Sleeper -, Victoria si concede a suo fratello – The Miracle – prima di decidere di tornare per sempre dal primo: ma l’altro la uccide. Nicholas vive nel suo inconscio una sorta di viaggio nel tempo e nella vita di Victoria, che si conclude con l’affermazione della reincarnazione e della sopravvivenza dell’anima, che continua a vagare nell’universo e a vivere in epoche e corpi diversi. Un concepì vagamente ‘noir’, in cui per alcune atmosfere sembra di tornare ai tempi di “Nursery Cryme” dei Genesis. I Dream Theater svolgono il compito con passione, realizzando un album fortemente teatrale, il cui booklet di testi può veramente essere letto come un libro e con dei momenti musicali di eccellenza, come la sopra citata “Strange deja vu”, la splendida “Through her eyes” e tutta la parte finale o secondo atto. Scale forsennate di chitarre, cambi di tempo a cura dei tamburi di Mike Portnoy disegnano cornici musicali attraverso cui passa svolgendosi la vicenda. E’ curioso anche che a scrivere i testi abbiano concorso i vari componenti del gruppo, in un passamano che sembra quasi mutuato da qualche gioco di società. Per la cronaca The Sleeper e The Miracle erano due fratelli che comparivano già in un’altra canzone del gruppo, “Metropolis part 1”, tratta dall’album “Images and words”. Ragion per cui “Scenes from a memory” è preceduto dalla dicitura “Metropolis part 2”. Il concept ritrova se stesso, alla fine. e' un vero capolavoro amo questo cd figuratevi che all'epoca comprai dvd , triplo live e album, che tutt'ora ascolto e vedo con la convinzione di paragonare quest'opera ad una donna bella, intrigante , misteriosa, buon ascolto a tutti gli amanti della buona musica. voto 10

Dane75

Commenti: 2 (Discussione conclusa)
  • #2

    zekkil (martedì, 11 settembre 2012 18:03)

    Irraggiungibile.. il loro miglior disco, capace, secondo me, di spazzar via anche il pur ottimo Images & Words.
    Non una canzone debole, tutte bellissime. Quando l'ho ascoltato la prima volta sono rimasto senza parole

  • #1

    alex (martedì, 11 settembre 2012 17:58)

    Con tutta probabilità questo è il vero vertice assoluto dei DT (con il debutto). Home, The dance of eternity, The spirit carries on e Finally free sono capolavori assoluti di un album pressoché perfetto. Una riflessione particolare per Through her eyes: a metà degli anni '80 Roger Waters e Eric Clapton collaborarono insieme in un album che era una spedice di continuazione di "The final cut". Ebbene quelle stesse atmosfere le ho avvertite immediatamente in quel brano.

Non so se ne vale la pena recensire quest'album!
"Perché?" direte voi. Perché gli Iron non hanno bisogno di recensioni, di critiche, di commenti, di chiacchiere!
È inutile!
Gli Iron sono come un mare, un oceano di suoni, di brividi, e al bagnante non resta altro che tuffarsi e nuotare, nuotare, nuotare... (credetemi, non finirete mai di nuotare, né vi stancherete, e perciò non avrete bisogno di riposarvi, di uscire dall'acqua e stendervi al sole per abbronzarvi, e togliervi il sale di dosso) loro trascinano, spingono, salvano gli annegati, gli ingenui, illuminano gli atei, lo sciocco, l'ignorante.

Alexander The Great, (tanto per citarne una)... dura roccia, buia, (grottesca) un tunnel cristallino, orrendo... (per fortuna esistono pezzi come questo, nella musica, nella storia, nella vita)

Tutto il resto è solo musica! voto 10.

Dani75

Commenti: 4 (Discussione conclusa)
  • #4

    rexor (mercoledì, 12 settembre 2012)

    album a dir poco spaventoso,bellissimo,adoro gli iron,molto quelli degli anni 90

  • #3

    ensiferum65 (martedì, 11 settembre 2012 18:05)

    Sarà che sono cresciuto con questo album, perciò emotivamente sono legato a questo disco. Però riascoltandolo 25 anni dopo suona sempre fresco e solido. Forse non proprio creativa la parte compositiva, ma la titletrack, wasted e alexander sono mostruose.

  • #2

    Dani75 (martedì, 11 settembre 2012)

    up the irons

  • #1

    TWOLFF (lunedì, 10 settembre 2012 21:46)

    E' stato partorito più di vent'anni fa. Ma come può un album così vecchio a suscitare emozioni così forti? La risposta sta nel nome:IRON MAIDEN! Non c'è nient'altro da aggiungere se non che Questo disco, come dice il titolo, ti trascina davvero "in qualche luogo nel tempo", un luogo puro di sonorità altamente emozionanti. Posso dare un voto minore di 10? NO! Up the Irons!!!

 

Dio benedica l’idea di Morten Veland d’abbandonare i Tristania per formare i Sirenia nel 2000; detto fuori dai denti non ho mai sopportato lo stile di Beyond the veil che tanti successi e consensi raccolse a suo tempo. Ora mi compiaccio nel sentire il ritorno dei norvegesi a quattro anni da World of glass, carichi di presupposti più maturi e consoni al panorama settoriale odierno e ad una band di rango. 
Molti saranno stati colti da malore nel sentire il precedente disco e credo che i defender della vecchia linea potranno avere le convulsioni nell’ascoltare cosa siano gli attuali Tristania, ma ciò è più che comprensibile. Continua quindi l’evoluzione stilistica della band che abbandona le soluzioni pompose e sinfoniche d’un tempo per scegliere una via più cauta, introspettiva e raffinata, tipica di molti altri ensemble che danno una sterzata alla propria carriera.

Stilisticamente, Ashes ha una chiara prerogativa goth rock/metal che per gioco potrebbe essere spezzata idealmente a metà: da un lato una versione più dura e metallica delle tracce “dispari”, dall’altro la fazione dei brani “pari” più coinvolgenti emotivamente e meno irruenti. La prima legata ad un filone lievemente più canonico  ma sorretto da buone atmosfere, fatto di note stoppate e scream simil black che si fondono piacevolmente alle voci pulite, l’altra debitrice allo stile conclamato di band quali The Gathering, Theatre of tragedy (fino all’incarnazione Aegis) ed Anathema (molto marginalmente). Forme più posate, prediligendo l’approccio morbido e sinuoso di composizioni dal piglio quasi unplugged in taluni frangenti.

Il disco esordisce con un riuscito e trascinante sunto stilistico intitolato "Libre", carico dell’espressività del coro femminile quasi ecclesiastico, forte di un buon groove, di melodie gradevoli e tastiere sullo sfondo, si passa poi ad "Equilibrium", la cui descrizione più efficace potrebbe essere l’immaginarsiAnneke van Giersbergen che balla il pezzo sul palco con le sue classiche movenze. Ritorna l’aggressività calcolata di "The wretched", costruita su riffoni stoppati ed uno stimolante connubio di tutte gli stili vocali adottati nel platter, brano spezzato nel mezzo da un drammatico break di violoncello. La successiva è Cure, carica d’un sentore tipico da Velvet darkness they fear (Theatre of tragedy), un crescere musicalmente misurato sull’onda delle delicatissime vocals femminili a livelli d’espressività quasi angelici. La strada prosegue immersa nelle tastiere vagamente orrorifiche di Circus per poi approdare all’eccezionale "Shadowman" (semplicemente divina), traccia da brividi se ci si abbandona alla leggerezza dell’interpretazione di Vibeke Stenein un duetto magistrale col compagno maschile; un'altra progressione perentoria nella velata e raffinata tristezza. Chiude "Endogenisis", miscela d’essenze, tra accordature pesanti e chitarre acustiche alternate in primo piano ed un incredibile spaccato paradisiaco, uno di quegli istanti nei quali si può restare soltanto interdetti da contata beltà stordente, con la pelle accapponata e gli occhi lucidi.

Efficace la calibratura nel terzetto vocale, i cui membri non sembrano contendersi lo scettro di prima voce, lasciando spesso uno spazio preponderante alla timbrica armoniosa di Vibeke chiaramente in stato di grazia, in perfetta simbiosi con il vocione caldo e profondo del compagno Østen Bergøy.

Disco estremamente godibile, ricco di profondità espressiva, a tratti rilassante ed abbondantemente bagnato da un gusto indiscutibile per l’atmosfera, che a mio avviso risente in parte della semplice normalità dei frangenti heavy, non particolarmente ricercati e strettamente finalizzati allo loro scopo. 
Sulla scia di questo, avanzo un desiderio: mi piacerebbe sentire i Tristania abbandonare del tutto i retaggi metal più estremi sfruttandoli come vago contorno, citandoli semplicemente vista la netta superiorità del lato più lieve.

Finora li ho evitati volontariamente, ma è stata tale la sorpresa da costringermi a rivedere la mia personale valutazione sul loro conto. Quando a fine anno farete un bilancio personale dei migliori dischi del 2005, ricordatevi di Ashes.

Tracklist
01. Libre
02. Equilibrium
03. The Wretched
04. Cure
05. Circus
06. Shadowman
07. Endogenisis

 

Infondato, a mio avviso, il parere negativo del critico nei confronti di  Beyond the veil e l'abbandono di Morten Veland. Entrambi, all'epoca erano i veri Tristania. E comunque, per la cronaca, le tracce sono 8 e non 7 come si dice sopra.

 

VOTO 9 TWOLFF

Commenti: 2 (Discussione conclusa)
  • #2

    deliverance (martedì, 11 settembre 2012 18:07)

    l'ho ascoltato ancora poco, ma mi piace davvero. secondo me, i fans dei tristania di widow's weeds troveranno che quest'album sia una schifezza, viceversa a chi non piacevano potrebbe trovarlo interessante. a me sinceramente piacciono entrambi...

  • #1

    Dani75 (domenica, 09 settembre 2012 01:51)

    si ti do ragione twolff , ma pensa se morten non acesse lasciato i tristania non avrebbe fondato i Sirenia, quindi addio a pezzi come meridian (oooo subblime pezzo), doveva andare cosi non c'e' altra spiegazione!, bhe' i Tristania sono cambiati molto da allora, ma ce da dire che la loro misica si e' evoluta creando un'altra splendida "creatura" i Tristania oltre ai Sirenia. do un 8 a questo lavoro semplicemente perche' la nuova vocalist doveva trovare la sintonia con il resto del gruppo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli Old Man’s Child sono stati per lungo tempo uno dei migliori gruppi symphonic black metal assieme ai Dimmu Borgir e ai Cradle of Filth. I dati di vendita mi daranno torto ma questo disco è il loro capolavoro. Come al solito a farla da padrone è stata la creatività di Galder che ha composto tutte le canzoni e i testi. I pezzi in molti casi sfiorano la perfezione, riuscendo a equilibrarsi tra parti veloci e parti più melodiche e ragionate. Il tutto poi, è senza dubbio impreziosito da una produzione che ha davvero dell’incredibile.

Ascoltando questo lavoro non avrete nessuna difficoltà a sentire i vari strumenti (anche il suono del basso è ben esposto) e, credetemi, è un piacere per le orecchie di chi ama questo genere. La voce di Galder ha un approccio non proprio classico: è filtrata (cosa comunissima nel symphonic black metal) ma tutt’ altro che fastidiosa; le vocals si avvicinano leggermente di più a canoni death e questo potrebbe far storcere il naso a qualcuno. Da incensare la prova di Nicholas Barker dietro le pelli, come al solito davvero mostruoso! Questo già non era un segreto viste le cose fatte coi Cradle of Filth ma qui davvero è fantasmagorico.

VOTO 9 TWOLFF


 

Tornano gli austraci con una formazione stravolta. Alla voce e' rimasta infatti la sola Sandra Schleret (fra l'altro parecchio migliorata), Martina Hornbaker e' stata "scippata" da Christofer Johnson dei Therion, cambiati pure batterista e tastierista (in meglio, direi). Se il precedente album (Komödia) era un concept legato alla Divina Commedia, questo ci racconta del Fantasma dell'Opera. Muiscalmente si nota un deciso passo in avanti, gli arrangiamenti sono più curati, la registrazione è indubbiamente migliore, i brani meno dispersivi. Si tratta sempre di un gothic metal progressivo con qualche striatura di metal germanico (!), questa volta ci sono anche accenni all'opera (ovvi, visto il contenuto lirico del disco) che posso ricordare gli ultimi Therion. Splendida l'interpretazione di Sandra che nel primo brano (una 
versione sapientemente riarrangiata del famoso pezzo di Webber) si trova anche a duettare con Tilo Wolff dei Lacrimosa (che tenta in ogni modo un impossibile imitazione di Mr. Doctor). Il disco scorre via facilmente ma e' abbastanza ricco da non annoiare subito, ad ogni ascolto c'e' qualcosa di nuovo da scoperire. Masquerade è un disco che piacerà a molti, soprattutto grazie alla splendida voce di Sandra e alle composizioni mai troppo pesanti, anche se inequivobilmente metalliche.

Tracklist:

1.  Opera. 
2.  The Phantom Of The Opera. 
3.  Masquerade Act 1. 
4.  Masquerade Act 2. 
5.  Masquerade-Interlude. 
6.  Masquerade Act 3. 
7.  Masquerade Act 4. 
8.  Within (The Dragon). 
9.  The Maiden And The River. 
10. Lost Paradise '99. 

 

Vot 8.5 TWOLFF

 

 

Gli EverEve tornano a colpire forte e duro con questo quarto disco, che usa con equilibrio tecnologie e abilità. Tradizione e futuro coniugati in una formula stupefacente.

Un disco intenso e disperato come ai bei tempi, quei primi anni ottanta, dove il dolore era palpabile e la disperazione era reale. Più o meno la stessa sensazione che si prova ammirando un quadro del grande Eduard Munch. E' il disco più metallico di questa band, che dopo aver perso per strada il primo singer, morto suicida, ha saputo rigenerarsi e superare la depressione in cui era caduta.

Dodici brani uno più azzeccato dell'altro, che alternano atmosfere evocative, come nella stupenda ed epica "This is Not", ad altre quasi ballabili, come nella irresistibile e metallica "Someday". Non c'è una briciola di commercialità, sono tutte tracce suonate per coinvolgere l'ascoltatore in un vortice da cui è impossibile fuggire, ascoltate "Suzanne" per capire cosa intendo. Un macinato misto di Black Sabbath, Joy Division e Marilyn Manson e, per dirla come direbbero gli EverEve, le parole si fanno carne. La voce di MZ Eve 51 sembra uscita dritta, dritta dagli eighties, ma quando urla non ha più nulla di old fashioned. Il batterista ha lavorato in precedenza con Joey Belladonna degli Anthrax.

E' davvero difficile restare impassibili di fronte a questo gruppo perverso e dannatamente gotico, che ha saputo reinterpretare il dark dimostrando una forte personalità. Attenzione il loro veleno non perdona! GB

 

Album che non ti lascia spazi vuoti dentro. Voto 9

TWOLFF.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo l’esaltante “Lake Of Sorrow”, uscito nel 1998 sotto Napalm Records, molti Gothic Metallers aspettavano con impazienza il secondo platter della band norvegese.

Nel 2000 esce “Perpetual Desolation” che presenta numerose svolte stilistiche per quanto concerne la proposta della band: come prima cosa la musica è diventata molto più dinamica e aggressiva, piena di chitarre di matrice Death (una metamorfosi simile a quella dei conterranei Tristania quando sono passati da “Widow’s Weed“ a “Beyond The Veil”). La musica richiamava scenari naturali e glaciali mentre ora i richiami sono soprattutto al mondo dell’orrorifico.
Persino il growl è cambiato: non più elemento di sottofondo ma elemento portante dei brani. Le tastieree le orchestrazioni hanno sempre un ruolo primario, ma a queste si è affiancato l’uso dell’elettronica. L’unica pecca è rappresentata dal fatto che “Lake of Sorrow” era più personale, mentre in questo nuovo capitolo i riferimenti si sprecano: Tristania, ovviamente ma anche Theatre Of Tragedy, Cradle Of Filth (nell’ utilizzo delle tastiere), Penumbria, Dismal Euphony e Therion, anche se a livello emotivo riesce a superare anche l’eccelso debut.

Il cd si apre con le note di violino di “The Flame Of Wrath”, un pezzo bellissimo e tenebroso, che alterna momenti aggressivi e pesanti ad altri più soffusi e rilassanti. Dopo i quasi 10 minuti della prima track si passa ad il pezzo migliore del platter: “Forever” : un pezzo filante, romantico e celestiale. Non mancano a dare colore ai pezzi le tastiere, il classico violino e degli inserti elettronici. Capolavoro di intensità.
Pandemonium” è un pezzo che ha un incipit molto battagliero. Anita canta ottimamente e gli inserti di violino danno un tocco di glacialità al pezzo. “Partial Insanity” è un pezzo stupendo, pieno di tastiere... In alcuni frangenti, grazie all’ utilizzo dell’elettronica e dei cori, ricorda l’immortale “Opus Relinque” dei Tristiana. Un pezzo molto terrificante e spaventoso , non c’è che dire.

Perpetual Desolation” si apre in maniera molto ritmata ed ha un incidere impetuoso: un pezzo dalle atmosfere molto gotiche e notturne. Il cantato di Anita sembra un vero grido d’aiuto dall’orrore trasmesso dal pezzo! “Nebula Queen” è un pezzo pacato e tranquillo, vicino al materiale di “Lake Of Sorrow” anche se non mancano irruenti riff: bellissimo l’intermezzo ad opera delle tastiere e del violino. “The Morniful Euphony” è un pezzo classicamente gotico, dotato di una vena romantica e cupa non indifferente. Degno di nota è l’intermezzo dove le tastiere simulano un clavicembalo di altri tempi, che porta l’ascoltatore in una dimensione fiabesca e remota, ma sempre in un’ottica dark. “A Tormentated Soul” è il primo pezzo che ho sentito della band scandinava ed è forse l’episodio meno riuscito di tutto il lavoro, senza la magia delle altre tracks.

Chiude il cd un’inaspettata e energica cover dei Metallica: “The Thing That Should Not Be” riletta in chiave gotica senza perdere un briciolo della sua originaria carica distruttrice. Nel complesso ci troviamo davanti un lavoro emozionante pregno di atmosfera e magia che, nonostante qualche limite (come la non eccelsa originalità) consiglio a tutti gli amanti del Gothic Metal a doppia voce.

 

Questo album, a me, fa viaggiare. E' così carico di passaggi emozionanti e toccanti! Al primo ascolto ti cattura come un ragno nella ragnatela. Ti riempie di emozioni. Ottimo rifacimento del brano dei Metallica.Bellissimo a mio parere è da 10.

TWOLFF. _W il metal!!!

 

Commenti: 2 (Discussione conclusa)
  • #2

    Twolff (sabato, 08 settembre 2012 07:21)

    Grazie gino.

  • #1

    dani75 (venerdì, 07 settembre 2012 23:14)

    ah! ah! ah! gino sei un buon gustaio, bel cd io do un 9

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con "Beyond the Veil" la band norvegese Tristania finalmente emerge nel mondo del Gothic/Metal. Molti appunto, me compreso, lo definiscono uno degli album più rappresentativi di questo genere. Parte del contenuto di questo cd lo intravediamo dalla copertina: distruzione, dolore e salvezza. Tre temi che poi vengono analizzati in ognuna delle canzoni dell'album.

Dal punto di vista strumentale chitarre e violini sono al centro dell'attenzione, due strumenti che fanno anche si' che questo cd si possa definire Gothic. E' il picco , nella produzione dei Tristania, di usi di cori gregoriani che si affiancano alla meravigliosa voce di Vibeke Stene. La voce femminile , un soprano, è messa in risalto dall'alternanza con il death growl di Morten Veland (ultimo suo album con la band), uno dei pochi growl che si possa definire terrificante.

Passando alle canzoni del lotto (tutte molto lunghe, "Aphelion" arriva quasi ad otto minuti) la più rappresentativa dell'album è proprio la titletrack, "Beyond the veil", che nei sei minuti e mezzo non annoia mai. Si apre in modo soft con dei deboli cori per poi un'inondazione di potenti chitarre in un ritmo molto particolare. Segue "Aphelion" un buon esempio di puro Metal. "A Sequel of Decay" diciamo che è generalmente meno oscura, qui risalta particolarmente Vibeke. "Opus Relinque" è il pezzo più oscuro ed infernale di tutto l'album ed anche uno dei migliori. "Lethean river" e "A Sequel of decay" non emergono particolarmente, ma non per questo sono brutte, anzi… "Simbelmyne" è solo strumentale… successivamene troviamo il pezzo che ha definitivamente portato al podio i Tristania: "Angina". Un energia di suoni che sembra portare in un mondo a parte. La ragione del suo successo è secondo me attribuibile al sound particolare. Infine troviamo un altro dei migliori pezzi del cd "Heretique", purtroppo qui manca la voce femminile, ma il pezzo non è assolutamente da meno, rilevante l'apertura da brividi che poi diventa un susseguirsi di chitarre. "Dementia" anch'esso bello, ma non allo stesso livello delle tracks precedenti.. "Beyond the veil" oltre che consigliato ai fans o agli amanti del genere è anche ampliamente proposto a chi vuole provare ad entrare e a conoscere il genere, poichè difficilmente si rimarrà delusi.

 

Questo, a mio avviso, rimane l'album più bello dei Tristania, se non il più ben fatto in ambito gothic. Morten veland, che dopo questo disco lascia la band, ha un'ugola così intensa e carismatica che pochi hanno. Infatti, dopo la sua uscita dal gruppo, non c'è stato nessuno degno di prendere il suo posto. Cosa aggiungere? AH si! Il mio Voto naturalmente è 10 +.

By TWOLFF.

 

Commenti: 1 (Discussione conclusa)
  • #1

    MAR*MAR (venerdì, 07 settembre 2012 18:44)

    BEL DISCO ANCHE SE PREFERISCO GLI ULTIMI LAVORI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Trail of Tears sembrano essere un po’ sfortunati con le proprie voci femminili. Nel 2000 si son separati dalla loro prima storica cantante Helena Iren Michaelsen, in breve tempo hanno trovato una sostituta dietro al microfono in Cathrin Paulsen con la quale hanno registrato il disco precedente a questo intitolato “A New Dimension of Might” pubblicato nel 2002. Nel 2004 infine, a poco meno di 2 anni dall’entrata nel gruppo, anche Cathrin lascia la band dopo aver contribuito a parte delle registrazioni di tre canzoni del nuovo album.

Il gruppo però non si perde d’animo e decide di terminare il disco senza ulteriori cambi di formazione, ne nasce quindi il fatto che i Trail of Tears hanno tentato di fare buon visto a cattivo gioco cambiando un po’ le canzoni. Particolare quest’ultimo che sembra sinceramente non aver influito in maniera negativa sul sound della band, al contrario sembra essere stato effettivamente l’avvenimento che tutti i musicisti stavano aspettando. Di disco in disco finora infatti il gruppo sembra aver compiuto una evoluzione musicale all’opposto rispetto a tante altre band gothic, invece di puntare sempre più sulla voce femminile e su musiche più orientate al goth-rock che al metal, i Trail of Tears hanno fatto l’esatto contrario incupendo e appesantendo sempre più il sound, fino alla quasi ovvia conseguenza di abbandonare la voce femminile per puntare solo su quella maschile molto bassa e spesso in growl.

Tocca a “Joyless Trance of Winter” aprire l’album e lo fa rimanendo sempre in bilico tra tra il gothic-doom per esempio dei My Dying Bride degli inizi e un gruppo di buon black-sinfonico, alternando frequenti passaggi più lenti e riflessivi in voce pulita e accompagnamento sinfonico, ad altri più veloci e aggressivi con batteria e chitarre furiose con il sottofondo delle tastiere. Un brano tra i più orecchiabili del lotto e per questo sicuramente piazzato come opener allo scopo di attirare subito l’attenzione dell’ascoltatore.
A seguire troviamo “Carrier of the Scars of Life” in cui gli elementi già presenti nella prima song vengono ripresi ed esponenzialmente sfruttati, decisamente azzeccati a mio avviso i duetti tra la voce pulita e la voce growl, così come il forte contrasto che si crea sentendo gli strumenti suonati velocissimi mentre la voce pulita canta a una velocità decisamente inferiore.
Si fa decisamente notare anche la quarta traccia intitolata “Cold Hand of Retribution”, in questo caso il contrasto è dato esclusivamente da ritornello e strofe, il primo suonato lento, melodico, con voce pulita, mentre le seconde presentano un velocissimo e violentissimo sound di tipica marca black, si tratta inoltre di una delle poche song in cui troviamo qualche brevissimo passaggio della voce femminile. È sicuramente una delle tracce più semplici dell’album, ma anche più orecchiabili, inoltre le sfuriate sono sicuramente d’impatto e catturano l’attenzione, tanto è vero che si tratta di una delle mie canzoni preferite.
Interessante, anche se su binari completamente differenti, la settima “Drink Away the Demons” che alterna momenti veramente cupi, in cui anche la voce sussurrata fa la sua parte nel creare la giusta atmosfera, con altri più di sapore quasi goth-rock. Si tratta inoltre di una canzone pesantemente effettata, in cui gli effetti elettronici della tastiera e della voce contribuiscono in maniera preponderante al sound del brano. Esperimento carino, che si fa sicuramente ascoltare senza problemi, anche se per fortuna caso unico lunga tutta la tracklist dell’album.

Dal punto di vista sinceramente si tratta di uno di quei pochissimi album in cui non mi sento di criticare alcuna scelta. Sia i suoni che il mixaggio dei volumi degli strumenti e delle voci mi han convinto fin dal primo ascolto. Tutto l’album suona in maniera veramente splendida e si sente che dietro deve esserci stata una produzione veramente di primo livello, la potenza stessa è veramente impressionante anche tenendo lo stereo a volumi normalmente considerati bassi.

In conclusione si tratta di un album che per i fan della prima ora della band potrebbe risultare forse un pochino di difficile assimilazione a causa del leggero cambio di coordinate musicali del sound del gruppo. Si tratta altresì però di un disco che potrebbe far conquistare ai Trail of Tears anche una nuova fetta di pubblico che generalmente si dedica a generi più estremi, se si decidesse di continuare per questa strada, cosa di cui mi auguro.

Tracklist:
01 Joyless Trance of Winter
02 Carrier of the Scars of Life
03 Frail Expectations
04 Cold Hand of Retribution
05 Watch You Fall
06 The Architect of My Downfall
07 Drink Away the Demons
08 Point Zero
09 Dry Well of Life
10 The Face of Jealousy

 

Voto 8.5/10

By TWOLFF

Commenti: 2 (Discussione conclusa)
  • #2

    rexor (lunedì, 10 settembre 2012 14:21)

    ho scaricato questo disco.e mi e' piaciuto molto.credo che scarichero'anche gli altri.molto interessanti.rexor

  • #1

    dani75 (mercoledì, 05 settembre 2012 21:57)

    sto disco lo devo ascoltare!!

"L'Amore e la Morte sono le sole cose belle del mondo, e le sole, solissime, degne di essere desiderate"
Giacomo Leopardi

Amo pensare a quest'opera come ad una splendida rosa nera.
Ogni singola canzone è un petalo che esprime un'emozione diversa, sempre addolcita da un dolore lontano, malinconico. La voce di Ville si snoda sinuosamente come profumo dalla corolla fragile, perdendosi in sonorità armoniose e tristi al contempo...
"Your Sweet 666" è  melodiosamente disperata, disegnante arabeschi di nostalgia che viaggiano sulle note di una tastiera e un basso in perfetta, cupa simbiosi, arricchiti da cori spasimanti, lievi. Un inizio intenso, gotico e dark nel senso più sublime del termine, che lega splendidamente con la traccia successiva.
"Poison Girl" offre una chitarra soffice, che accompagna degli inserimenti vocali profondi e sofferti. Nel ritornello Ville canta quasi sottovoce, per non disturbare il pregiato fraseggio strumentale, impreziosito da inserimenti corali quasi impercettibili.

Ed ora lasciate che i vostri occhi si chiudano, che la luce intorno a voi sfumi in un crepuscolo cinereo e silenzioso.
Sei note di tastiera. Gelide. Bellissime. "Join Me In Death".
La voce addolorata scivola su una strofa semplice ed emotiva come una goccia di rugiada sui neri petali vellutati. Il basso compare delicatamente, scandendo il cantato che si fa pulsante, carico di aspettativa... la batteria infrange in modo melodioso introducendo il ritornello, magnificamente struggente, in cui falsetto e coro s'intrecciano portando un debole profumo di lacrime. La seconda strofa, deliberatamente breve, riprende la prima, incorniciando lo stesso magnifico ritornello, ma questa volta segue un duetto tra una voce profonda, disillusa, e una tastiera fredda e argentina. Ancora un impeccabile inserimento corale che risponde in modo appassionato a Ville, il quale a sua volta spezza preziosamente. Il ritornello si spegne su tre note di cui l'ultima esita, vibra, estinguendosi in un silenzio gelido.
Ma, è noto, ogni rosa ha le sue spine, ed ecco allora "Right Here In My Arms", veloce, criptica, difficilmente comprensibile, rabbiosamente dark. Forse un po' stridente in un simile ambito, ma bella proprio per questo.
"Bury Me Deep Inside Your Heart" inizia con un arpeggio distante, coperto da una batteria che però si spegne immediatamente, cedendo il posto ad una voce lieve, singhiozzante. Il ritornello è semplicissimo ma di notevole bellezza. La sesta traccia è una cover: "Wicked Game". Forse migliore dell'originale. "I Love You" è invece una canzone singolare, che sconfina nel dark punk senza però perdere le tinte che solo gli His Infernal Majesty sanno dare.
Proprio quelle tinte assumono il colore sbiadito e pallido del ricordo nella meravigliosa "Gone With The Sin". La voce apre senza alcun accompagnamento, esibendosi in profondità stupefacenti. Introdotta da Ville, la batteria inizia un drumming lento, accompagnato da un coro particolare, nostalgico, sognante, psichedelico. Il cantato si fa più morbido, sensuale, in una strofa monotona, quasi ossessiva, comunque incantevole. Ancora il ritornello, strutturato su una melodia surreale che sfuma in modo quasi ipnotico.
Il percorso raggiunge l'ultimo punto focale in "Heaven Tonight", dal suono quasi vuoto, in cui il basso duetta con la voce impregnando l'atmosfera di un fascino decadente. Il coro, particolarmente vaporoso, impernia il ritornello sulle delicate interiezioni vocali di Ville. La tastiera si inserisce dando al tutto un tocco di freddezza e fragile staticità. Ancora il ritornello nella parte conclusiva che decade lentamente, fino a confondere il confine fra musica e silenzio.

"…so before life tears us apart, let Death bless me with you…"

voto 9

Dani75

 

Molto "sweet" come album, ti scivola addosso lasciandoti uno strato zuccheroso di piacimento. Trovo questo disco, oltre che ben fatto, instancabile col passare degli anni. Dopo tanto tempo lo si ascolta ancora volentieri e con gusto. Voto 9 anche io. By Twolff 

Commenti: 2 (Discussione conclusa)
  • #2

    lux (lunedì, 03 settembre 2012 22:32)

    stupenda la recensione, tra l'altro, complimenti

  • #1

    fabrizio (lunedì, 03 settembre 2012 22:29)

    bellissimo, molto orecchiabile e paraculo. Nonostante gli anni passati dall'uscita continuo ad ascoltarlo con piacere.

Live ufficiale per questa grandissima band cresciuta al sole della Florida, e dopo tre dischi in studio e l'aver raggiunto una popolarità sempre più crescente pubblicano questo disco diviso in due parti, una acustica e l'altra elettrica, proponendo la scaletta di entrambe quasi in maniera speculare. La voce di Brent Smith è ipnotica e riesce a coinvolgere in maniera unica, mentre è geniale Zach Myers alla chitarra, splendidi i suoi passaggi immediati tra il modaiolo e il retrò. La parte elettrica è veramente bella, la produzione perfetta pur avendo una buona dose di basi di tastiere per le aperture più ariose e per doppiare le parti di chitarra; il resto appare veramente crudo e vero. Vi sono momenti toccanti come "Crow And The Butterfly", e la magica "If You Only Knew", oppure momenti tirati e goderecci come "Devour", la potente e pesante "Sound Of Madness", o la quasi inedita, ma straordinaria "Diamond Eyes". La parte acustica invece è magistrale a tratti, ma altrettanto deludente su alcuni brani poco propensi ad adattarsi a questa tipologia e lasciati troppo uguali all'originale ("Devour" su tutte). Anche la versione di "With A Little Help..." versione Cocker è un po' superflua, quindi massimo dei voti alla prima parte e sufficiente la seconda (anche se il DVD è una goduria di oltre due ore, parte acustica compresa). Rimane però l'idea di una band grandiosa, capace e coinvolgente che sa perfettamente dove andare, e sa altrettanto bene ciò che il pubblico richiede.

voto 9

Dani75

Commenti: 2 (Discussione conclusa)
  • #2

    francy (giovedì, 06 settembre 2012 23:15)

    bello ma io preferisco la parte acustica v 10

  • #1

    moby (martedì, 04 settembre 2012 18:50)

    quale delizia per le mie orecchie 10++++++++++ che :D


Quando si dice che la Finlandia è una terra che sa proporre novità e originalità per quanto riguarda il Metal estremo, è proprio vero. Questi sono gli ...And Oceans, gruppo che a quanto pare ha saputo trarre ispirazione dalla propria madre patria per concepire un album del genere. In questo album, il primo della band, gli And Oceans ci propongono un Black Metal sinfonico qualitativamente magistrale. Ricco di atmosfere a volte eteree, a volte tristi, a volte sognanti, create dalle mani di un sapiente tastierista. La parte puramente Black varia da tipiche sfuriate mai esageratamente tirate, a passagi più cadenzati che contribuiscono a rendere l'album molto atmosferico. Termini di paragone si potrebbero trovare in qualcosa dei Dimmu Borgir e forse nei Covenant (Era "Nexus Polaris"). Mai per niente noiosi, riescono a non far perdere di concentrazione l'ascoltatore, ma a volte persino a stupire, grazie a una compositività dei pezzi, non indifferente. Le tracce più rilevanti e senza dubbio che più rispecchiano la natura del gruppo sono la prima "Trollfan", la quinta "Mikrobotik Fields / Ur Åldrig Saga och Sång" e la sesta "Samtal Med Tankar / Halo of Words". Ma tutto l'album diciamo, non scade mai tenendosi sempre ad alti livelli. Più che mai consigliati sopratutto per chi cerca Black Metal Sinfonico originale di prima classe.


Track List:

01. Trollfan 01
02. The Room of Thousand Arts 
03. Som Öppna Böcker 
04. Je Te Connais Beau Masque 
05. Mikrobotik Fields / Ur Åldrig Saga och Sång 
06. Samtal Med Tankar / Halo of Words 
07. September (När Hjärtat Blöder) 
08. Kärsimyksien Vaaleat Kädet

 

Voto 8

By Twolff

Commenti: 3 (Discussione conclusa)
  • #3

    rexor (mercoledì, 05 settembre 2012 22:40)

    album da urlo.intrigante ma allo stesso tempo coinvolgente......da avere a tutti i costi.

  • #2

    dani75 (mercoledì, 05 settembre 2012 21:57)

    concordo bel disco

  • #1

    monocromaticvampire (martedì, 04 settembre 2012 18:49)

    assolutamente divini

Inside The Torn Apart è per alcuni versi il disco della reunion per i Napalm Death. Lo storico cantante Mark "Barney" Greenway lasciò la band alla fine del 1996 a causa di alcune divergenze e andò ad accasarsi alla corte degli Extreme Noise Terror, band che al tempo stesso vide il suo singer entrare nei Napalm Death.  Rispetto al suo immediato predecessore questo è un album più solido e deciso ma ad ogni modo basato sulle stesse coordinate stilistiche, con pezzi aggressivi e dal piglio Grindcore/Hardcore come l'opener Breed To Breathe oppure Birth In Regress. Tracce ben accette che mettono in evidenza un senso del groove molto accentuato, i classici brani che dal vivo aizzano le folle. Quando invece i Napalm Death decidono di "svagarsi" tirano fuori canzoni più originali e sperimentali, proprio come avviene dal 1994 in poi, anno in cui la violenza brutale del Grindcore è spesso sostituita con soluzioni lisergiche, e qui cito la title track, Indispose e If Symptoms Persist. Un elemento che non bisogna mettere in secondo piano in questa fase dei Napalm Death (la metà degli anni 90) è la produzione: sicuramente più curata e ricca di sfumature di un qualunque cd Brutal/Grindcore. Una cura dei suoni che gli permette di dare maggiore importanza agli arrangiamenti e a tutti quei piccoli accorgimenti che fanno un disco come Inside The Torn Apart un prodotto di qualità, maturo e purtroppo spesso incompreso. C'è un'ampia scelta di brani quindi, da quelli più sperimentali ad altri più diretti, su tutti Prelude e Low Point, due schegge di pura e semplice violenza sonora. Ottima come sempre la prestazione di tutti i musicisti coinvolti. I Napalm Death continuano il loro percorso artistico fra passato e presente, con questa'album che anche distanza di 15 anni, riesce ad infiammare le anime dei suoi fan. il caro Rexor ha deciso di omaggiarmi di tale cd dandomelo, il quale ringrazio e senza aggiungere altro do un voto 8.

Dani75

 

 

Questo disco, quando uscì, fu considerato da molti come il prosieguo dell'epoca d'oro dei Therion.
I precedenti lavori del gruppo, erano perlopiù esperimenti (riuscitissimi diremmo) di quell'incarnazione sinfonica con marcati tratti gotici che ben rappresenterà poi i Therion dell'avvenire (leggi: di oggi, anche se con molte differenze e discriminanti).

Se "Theli", infatti, aveva posto le basi del classico ed inqualificabile stile della casa, "Vovin" lo aveva spinto sino all'inverosimile, tralasciando quelle che erano le attitudini Death Metal degli inizi carriera, per concentrarsi maggiormente sul sinfonismo, l'epica dei brani, e la straordinaria intelligenza degli argomenti trattati nei testi, opera dell'intellettuale ed occultista Thomas Karlsson che si rifanno ad una tradizione mistica ermetica, erede dei Rosa+Croce e della Golden Dawn, non disdegnando i culti misterici antichi, che partono dagli Egizi, e dalle culture mesopotamiche, fino ad arrivare alla mistica ebraica e all'Odinismo. E "Deggial", infine e se si vuole, non è altro che il riassunto, la sintesi, usando parole inappropriate, di quella enorme classe che ha portato la band ad essere osannata nel mondo.

In questo enorme e stupefacente circo che miscela senza tanta parsimonia miti antichi, Heavy Metal roccioso ma raffinato, goticismo e gusto melodico sopraffino, si farà strada nei Therion quell'attitudine barocca e pomposa che poi darà loro tanta fortuna, ma che agli occhi dei detrattori sarà sempre l'arma con cui accuseranno il gruppo delle più svariate cose: d'essere prolissi, noiosi, ripetitivi, compiacenti del proprio ego. Tutte queste cose potrebbero anche essere vere. In parte lo sono eccome, ma fanno indubbiamente il paio con il fascino etereo che le loro canzoni hanno sempre irradiato, e con questo album, al di là di ogni concetto già detto, tutto viene riconfermato, anzi sottolineato in maniera inconfutabile.

Dieci canzoni, più un rifacimento di un brano d'opera ("O Fortuna", che in origine faceva parte dei famosissimi Carmina Burana, opera del compositore tedesco Carl Orff), che pongono in essere uno stile estremamente volubile ed ecletticocui va a sommarsi l'enorme bagaglio sinfonico ed operistico che la band inserisce come colonna portante in quasi tutti i brani. Così, accanto a pure perle oniriche ed inarrivabili, dove sembra di navigare in una costellazione magica, come in "The Invisible" o in "Enter Vril-Ya", si passa al pout-pourrì di influenze che i Therion omaggiano senza tanti veli, come in "Eternal Return" (chiarissimo il riferimento agli Iron Maiden, tanto che sembra quasi, dopo lo svolgersi del prologo gotico bellissimo, di ascoltare una delle loro hit), o come in "Flesh of the Gods", riferimento un pò più generico, ma sempre marcato, ad una certa quale NWOBHM (tra l'altro, a cantare nella canzone è Hansi Kürsch, che molti conosceranno per essere la voce dei Blind Guardian).
Se vogliamo però, per onestà, dobbiamo dire che i migliori episodi passano per le canzoni con il piglio più intimistico e forse più riconoscibile dei Therion stessi. Sicché la stessa "Deggial" partendo da un a base Progressive, evolve, dal suo centro fino alla fine, in una scarica adrenalinica ed incandescente di Heavy tirato e ben costruito, che nella sua geometria non può che affascinare l'ascoltatore. Ma pure " Via Nocturna part I, II" non manca di centrare l'obiettivo di mettere a nudo la straordinaria versatilità della band, che quì dà libero sfogo alle elucubrazioni liriche e sinfoniche, ponendo all'inizio uno struggente ed epico passaggio di violini, organi ed archi (tutti in originale, e non campionati, avendo la band, in questo disco, utilizzato una vera piccola orchestra. Preludio poi di quello che faranno su "Lemuria" e "Sirius B"), per poi acutizzare il senso tragico e romantico della canzone, attraverso una cadenza vibrata, quasi ipnotica che le chitarre profondo a piene mani e senza imbarazzi.

Un sogno, più forte di qualsiasi paradiso artificiale, più grande di qualsiasi immaginazione, più imponente e stupefacente proprio perché comprensibile in parte o solo a metà. Tutti, ascoltando attentamente questo disco (e solo attentamente, bisogna precisarlo: i Therion non sono un gruppo da stereo in macchina), potranno ricavarne la loro impressione soggettiva. Diversa certamente da persona a persona, e forse proprio in questo, più che sui rimandi magici ed esoterici delle composizioni, si cela il grande fascino di una musica che non rappresenta un punto fermo, ma piuttosto una mistura di impressioni ed emozioni che si conforma, volta per volta, ai desideri e al volere di ognuno.

Se non è genio questo, ditemi voi di che cosa si tratta, perché io non saprei proprio come spiegarvelo altrimenti

 

Voto 9/10. By Twolff

 

Commenti: 2 (Discussione conclusa)
  • #2

    marcus (lunedì, 03 settembre 2012 22:23)

    Seguo i Therion dai tempi di "Theli" e li ho sempre trovati interessanti, perchè riescono a fondere in modo particolare partiture classiche, voci operistiche ed heavy metal. Questo disco si mantiene sui buoni livelli di "Vovin", senza aggiungere e togliere niente, ma sicuramente canzoni come "Eternal Return", "Enter Vril-Ya" e la particolare "Deggial" non possono passare inosservate.

  • #1

    black heart (lunedì, 03 settembre 2012 22:19)

    GRANDE LAVORO

questa terza fatica dei rammstein,pubblicata nel 2001,da' ai rammstein quel grande stile di cui vantano oggi,anche se i due album precedenti, pur non avendo questo stile in tutto e per tutto,premettendo che,i primi due lavori per me sono come due diamanti grezzi.beh mutter e'la matrice di un'evoluzione musicale di uno stile unico.l'album in questione presenta tutte le carte in regola per rimanere scolpito nella storia dell'industrial metal.gli viene etichettato il loro genere musicale,,,,,tanz metal,,,,ma questa vena incisiva la troviamo di piu nei primi due album,che, come dicevo prima,man mano assottigliandosi da mutter in poi.ma alcune caratteristiche rimangono a far parte del loro suono,riff granitici,possenti e poi la grande voce del gruppo carismatica e coinvolgente.  in questo lavoro, possiamo avere l'onore di avventurarci in atmosfere epiche e melodie fluttuanti.cosa dire, un lavoro a dir poco eccellente sotto ogni punto di vista.  voto 98 su 100.     by rexor

 

Vero. Con questo album i rammstein hanno fatto un grosso salto in avanti, affermandosi davvero dei maestri nel loro campo; 

voto 8.5/10 By Twolff

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  • #1

    rudolff (giovedì, 06 settembre 2012 23:18)

    beautiful disk one of mine preferred 100




Silent Force, degli olandesi Within Temptation, è un disco che ho ascoltato, qualche anno fa, fino allo sfinimento. Certo, questo è decisamente il mio modus operandi per la musica in generale, ma solo dopo un alto (che qualcuno definirebbe decisamente eccessivo) numero di ascolti, che molto spesso comprendono una perfetta memorizzazione dei testi dei brani, delle linee vocali e persino delle ritmiche della batteria, riesco ad apprezzare veramente un lavoro.

Quindi, eccomi qui, dopo una "pausa di riflessione", che riascolto nuovamente, in modo che definirei anche piuttosto compulsivo, questi brani meravigliosi.
I Within Temptation sono stati il mio primo contatto con il mondo del gotico, proprio perché si sono sempre trovati in un limbo piuttosto pacato, ma che si rivela comunque ricco di sfaccettature e personalità: con quest'album la band ha direzionato i propri lavori in un percorso più completo, decisamente meno rinchiuso nelle atmosfere celtiche che ne caratterizzarono il passato.
In The Silent Force si sviluppa una storia, che si incarna in modo esemplare con la musicalità dei brani: ma non solo, poiché anche le singole frasi riescono ad evocare, legate alla musica, sensazioni, più che ogni altra cosa, dirette.
L'album, pubblicato nel 2004, ebbe da subito un successo esplosivo, raggiungendo (anche grazie al sound più commerciale) le charts di Olanda (disco d'oro con oltre 80.000 copie vendute), Francia, Germania, Belgio, Finlandia, Austria e Svizzera. Vennero pubblicati ben tre singoli: Stand My Ground, Memories ed Angels.
Una delle maggiori peculiarità dell'album è certamente la scorrevolezza in tutte le sue parti: non c'è alcun punto di stasi, di noia e ogni momento è saldamente legato al successivo tanto quanto al precedente; nonostante siano molte le interruzioni che giocano sull'atmosfera, l'effetto "vuoto" è pressoché inesistente.

Ad aprire l'album ci pensa una intro dal chiaro timbro Within Temptation: un'atmosfera oscura ed incerta si apre su un intreccio di cori (divisi in più linee vocali) di infinito impatto, che lasciano infine spazio ad una melodia cantata dalla bravissima Sharon Den Adel.
See Who I Am apre dunque la vera e propria tracklist, e si codifica come un brano degno di tale onere: scorrevole, tuttavia non eccessivamente "leggero", si snoda in un continuo saliscendi di melodie più o meno velocizzate, a volte solamente d'atmosfera, che infettano la propria memoria uditiva come un virus. Il brano, per riprendere il discorso prima cominciato, parla di speranza, ma anche di impegno, di forza interiore, e lo sigilla con parole come queste:

See who I am, break through the surface, reach for my hand, let's show that we can free our minds and find a way, the world is in our hands

e queste sono interamente fasciate dalla potenza delle parti orchestrali e corali, legate inscindibilmente alle linee degli strumenti e della voce.
Ma i brani si sviluppano anche su tematiche più istintive, come troviamo ad esempio per Jillian, che ci parla di come, spesso, nella vita le delusioni arrivino inaspettate, soprattutto dopo essersi impegnati, e di come alla fine si sia sempre ed inevitabilmente soli. E così questa track si fa coinvolgere da sentimenti incontenibili, allacciati ad altresì intensi (ma sempre elegantissimi) sviluppi musicali, accompagnati da cori dirompenti e dall'alternarsi di parti maggiormente calcate, piene di rancore, ad altre più pacate, simboleggianti la delusione.
Angels gioca invece su toni alti per la voce, quasi a rievocare la celestialità dell'apparente tematica del titolo: ma qui, ancora una volta, l'atmosfera si fa oscura, e nuovamente si parla di menzogne e rabbia. Il contrasto è però ben giocato proprio su questo: infatti, l'apparente dolcezza delle melodie si rivela essere al contrario una condanna, dolcemente caduta sulle spalle del protagonista del brano.
Fermo restando l'assoluta validità delle restanti tracce, Memories è l'ultimo di cui voglio parlarvi (più che altro per non dilungarmi troppo): una melodia condotta dal suono dei violini e del pianoforte, che ci conduce sin dal principio in un'atmosfera di pura malinconia, introduce il brano le cui caratteristiche principali sono ravvisabili nelle ritmiche lentamente scandite, nelle parti prettamente orchestrali e nella linea vocale avvolgente.
Temo non ci sarà necessità di parlare dei suoni, in quanto questi sono calibrati al millimetro -o dovrei dire al trentaduesimo?, rendendo l'ascolto decisamente coinvolgente.

Non ho trovato, né penso mai troverò, particolari critiche rivolte a questo album: certamente, la scelta a volte discutibile di dirigersi verso un sound più commerciale potrà anche essere non apprezzata, ma ciò non toglie che la qualità generale sia estremamente alta.
Ad ogni modo il talento, che nei Within Temptation è decisamente molto e ben sfruttato, ha decretato un grande futuro che questa band sta tutt'ora vivendo, e che era decisamente intuibile sin dagli esordi.

 

voto 9

dani75

Sono pienamente dello stesso parere del socio dani. 9 pieno per questo gingillo di album.Twolff

 

 

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  • #2

    sharon86 (lunedì, 03 settembre 2012 11:59)

    within forever :)

  • #1

    suspiria (domenica, 02 settembre 2012 19:10)

    grat album! <3


 

concerto di Black Symphony si apre con un intro suonato in modo ineccepibile dall’orchestra e cantato magnificamente dal coro: totalmente in bianco e nero a rendere il tutto ancora più suggestivo, l’ “Ouverture” è un susseguirsi di emozioni in un crescendo mozzafiato. Si parte con un’esibizione corale per poi gustare l’aggiunta di violini e ottoni. Il ritmo si fa via via sempre più incalzante fino alla quiete finale. Ecco, dopo i primi minuti, salire già i brividi.

Dopo un applauso sconfinato all’orchestra è la volta dei WT: si parte con “Jillian”, che vede Sharon sfoggiare un originale vestito rosso fuoco e nero. Una criniera di piume dei medesimi colori cinge il capo della bella vocalist quasi a coronare la sua maestosità canora, la quale viene dimostrata, senza troppi indugi, già dai primi secondi.

Si continua con “The Howling”, sulla quale la Den Adel mette in mostra un headbanging di pochi secondi (nulla a che vedere con quello dell’olandese Simone Simons, diciamocelo). Cosa davvero molto positiva è il fatto che sono state eliminate quasi totalmente le voci campionate: questo si può chiaramente sentire in “Stand My Ground”, nella quale, nel precedente “The Silent Force Tour”, la voce live nel refrain era totalmente coperta da quella registrata. “The Cross” fila liscia come l’olio e lascia spazio a “What Have You Done”, che vede come ospite un Keith Caputo che, almeno inizialmente, sembra troppo preso ad ammirare la bellezza infinita di Sharon per pensare a cantare in modo adeguato, almeno io ho avuto questa impressione cade letteralmente dalle sue labbra. Il pubblico ad ogni modo apprezza, e congeda Keith in un applauso sincero.

“Hand Of Sorrow” è la settima canzone della scaletta. Robert Westerholt chiede al pubblico di partecipare saltando tutti insieme, e così è. Vedere 10.000 persone che saltano all’unisono a tempo di musica è uno spettacolo fantastico!

“The Heart Of Everything” è la prova finale in cui Sharon dimostra che non ha bisogno del falsetto per riuscire a toccare le note più alte: la canzone viene infatti totalmente cantata di potenza in modo perfetto.

 

Ora è il momento del live acustico: “Forgiven” è la prima ballata del concerto, a cui partecipano “solo” l’orchestra, Martijn Spierenburg (tastiere) e ovviamente la bella Sharon; durante questa canzone si forma tra il pubblico un’atmosfera di intimità e tenerezza palpabile nonostante il concerto lo si stia guardando dal proprio televisore/computer.

La seconda ballad “Somewhere” viene cantata con l’inaspettata partecipazione di Anneke Van Giesbergen (Agua de Annique), la cui voce, nonostante sia diversa per timbro e tonalità, si amalgama in modo eccellente con quella di Sharon. Ampi ringraziamenti e applausi per Anneke, che saluta con un abbraccio la nostra cantante preferita.

“The Swan Song” e la classica “Memories” chiudono la parte acustica di questo meraviglioso concerto, lasciando lo spazio ad un’altra magnifica canzone.

 

“Our Solemn Hour”, disperata richiesta di redimerci “dall’ora solenne”, è una canzone dal timbro davvero clericale, dove il coro ha una parte fondamentale che viene eseguita con professionalità.

Ecco finalmente una delle canzoni più heavy mai concepite dai Within Temptation, cantata con la partecipazione del growler George Oosthoek (ex Orphanage), artista davvero coinvolgente. D’effetto l’uso dei botti all’inizio della canzone che rendono il tutto ancora più spettacolare.

Si continua con la struggente “Frozen” e con la canzone più lunga della carriera dei WT: “The Promise” fino ad arrivare ad un altro classico: “Angels”. E’ incredibile come, dopo un ora e mezza di concerto, Sharon riesca ad arrivare alle note più alte senza fatica. Molto carino, inoltre, il balletto che propongono quattro “fatine” (in realtà non si capisce bene cosa siano) che danzano dietro alla Den Adel.

Finalmente viene proposto il masterpiece per eccellenza dei Within Temptation: Mother Earth, che suonata con tanto di orchestra acquista ancora più maestosità. Ormai di comune uso, i lanciafiamme e i fuochi d’artificio coronano la migliore canzone prodotta dalla band olandese.

“The Truth Beneath The Rose” fa da apripista ad un ennesimo classico dei Within, che nei precedenti “The Silent Force Tour” e “Mother Earth Tour” aveva fatto da opener con il suo immenso intro: “Deceiver Of Fools”, dal testo socialmente importante recita:

 

“Ingannatore di cuori
Ingannatore di sciocchi
regna con la paura
Ingannatore di speranze
Ingannatore di sciocchi
Regna di nuovo

Si nutre di paura
Velena la verità
Per conquistare la loro fiducia
Per mostrare la via
Ad un mondo in decadenza

Domina il tuo cuore”

 

Si arriva così alla penultima canzone di questa splendida esibizione: “All I Need”, una romantica ballata tratta dall’ultimo album “The Heart Of Everything”. Sharon cerca più volte di riuscire a toccare di potenza le note più alte, ma deve ricorrere al falsetto. Comprensibile: dopo due ore di concerto non si può certo biasimare una ragazza che nemmeno ha preso lezioni di canto e che sa comunque cantare così bene.

“Ice Queen” fa da chiusura a questo entusiasmante concerto. Migliaia di coriandoli scendono dal tetto dell’Ahoy Hall, e tra questi la band invita gli ospiti sul palco per ringraziare tutti assieme il pubblico, la Metropole Orchestra e il coro.

 

 

Il secondo DVD contiene un altro concerto: l’esibizione dei Within Temptation al “The Beursgebouw”. Esso contiene anche i video di “What Have You Done”, “Frozen”, “The Howling” e “All I Need”, i loro rispettivi making of e le impressioni del tour in giro per il mondo: un video girato on the road tra America, Europa, Giappone e Regno Unito. Gli extra contengono diverse esibizioni dei Within Temptation e un video delle registrazioni dell’orchestra per l’album “The Heart Of Everything”.

 

Questo concerto è, insomma, “il punto più alto raggiunto dai Within Temptation”, come dice Sharon alla fine di “Ice Queen”. E’ davvero d’obbligo da possedere per tutti gli amanti dei WT e in generale del metal sinfonico. Ecco l’ennesima prova di maturità di una band che ha ancora tantissimo da dare alla scena metal, e aspettando l’arrivo del nuovo album vi potrete gustare più e più volte questo magnifico DVD.

Bravi Within Temptation. ho visto e rivisto questo dvd impeccabile.

voto 10

dani75

 

 

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  • #1

    metalboy (lunedì, 03 settembre 2012 12:00)

    greatttttttttt concert best band \m/

Esistono persone capaci di creare, con molto poco, dei veri capolavori: questo è il caso di Quorthon, che nella sua lunga carriera scrisse alcuni tra i migliori dischi di viking/epic, ma sicuramente con questo "Twilight Of The Gods" raggiunse il punto più alto del viking in generale, si...ne sono fermamente convinto, per due motivi fondamentalmente:

1) "Twilight Of The Gods" contiene alcune delle canzoni più belle del viking epico
2) "Twilight Of The Gods" contiene le più belle canzoni dei Bathory

Siamo nel 1991, ed i Bathory sono in circolazione già da un pò di anni, è risaputo che il gruppo non è sicuramente formato da geni musicali (tecnicamente parlando), ma ciò che più dà da pensare ai fan del gruppo è: "Quale strada deciderà di prendere Quorthon? Si tornerà al black cacofonico dei primi album?? Si continuerà il discorso di Death Blood And Fire?"... bhè la risposta è semplice, quel geniaccio di Quorthon fa quello che meglio gli viene... fregarsene di tutto e tutti e compone ciò che si sente... ed indovinate??? Nasce un vero capolavoro formato da 7 perle di viking, perle che rispondono al nome di "Twilight Of The Gods", una suite maestosa di 14 emozionantissimi minuti: la canzone di apre con una lunghissima introduzione suonata tutta in sordina, alla quale si uniscono poi, in un fantastico intreccio melodico, chitarre elettriche ed acustiche, che tessono una melodia pesante e cupa  accompagnata da un testo splendido. La teatralità della voce del cantante e i grandiosi cori che fanno da sfondo rendono la canzone veramente squisita e per nulla pesante da ascoltare. Si passa così a "Through Blood By Thunder", canzone che getta le basi alla stragrande post-produzione bathoriana, che comincia con un arpeggio inziale abbastanza calmo, al quale si attacca poi una base molto cadenzata basata su una ritmica quadrata e possente che viene accompagnata da un cantato particolarmente poco aggraziato che rende il tutto molto particolare. Dopo questa perla passiamo a "Blood And Iron", grande classico della produzione del gruppo, che si apre con uno stupendo arpeggio di chitarra acustica molto triste, che si trasforma poi in una canzone più complessa rispetto alla precedente: le chitarre si fanno più aggressive e i tempi di batteria risultano essere molto più vari e complessi. La monotonalità della voce di Quorthon è questa volta un pò il punto debole della canzone, che viene leggermente imbruttita. Il livello generale della song è comunque eccellente. 10 minuti di pura epicità. "Under The Rune" ci mostra invece un vocalist in grande forma, che ci offre una prestazione veramente ottima andando a costruire delle linee vocali eccellenti, accompagnate da cori fantasticamente epici. La base melodica è semplice, quasi elementare, ma non per questo brutta anzi... la melodia portante risulta essere una delle migliori dell' album, dove musicalità leggere ed aggressività sono perfettamente dosate. "To Enter Your Mountain" è la song che invece meno mi ha attirato, non perchè brutta (anzi, paragonata al viking moderno è qualcosa di innarrivabile), ma perchè complice una base che si rifà troppo a quella di "Twilight Of The Gods" ed un cantantato veramente pessimo risulta essere oscurata da cotanta bellezza(mi duole dirlo). "Bond Of Blood" riprende il percorso intrapreso con la precedente canzone, rispetto alla quale risulta essere però molto più ricca di spunti ed accompagnata da un cantantato migliore; bellissime le linee di chitarra elettrica che fanno da padrone in tutta la durata della canzone. L'ultima "Hammerheart" è una delle più belle canzoni che io abbia mai sentito: nulla di particolare dal punto di vista tecnico/strumentale, sia chiaro, ma la carica emotiva che sprigiona questo coro vichingo è qualche cosa di mai sentito prima d'ora; la teatralità e l'emozionalità che sprigiona la voce di Quorthon in questo pezzo è qualcosa di unico e fantastico. Ottima la melodia portante, assolutamente priva di chitarre e tutti gli strumenti classici quali basso e batteria (quest'ultimo compare solo con i piatti nel sognante ritornello).

In definitiva questo è sicuramente uno dei più bei dischi che io abbia mai ascoltato, ed è sicuramente il miglior prodotto di viking mai concepito; la produzione del disco, abbastanza sporca, rende il tutto più fantastico e gradevole.

voto  9

DANI75

 

 

 

 

 

 

 

 

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  • #2

    bathorysoul (lunedì, 03 settembre 2012 12:01)

    bellissimo album r.i.p. quorthon

  • #1

    Quorthon (domenica, 02 settembre 2012 19:12)

    fuckkkkkkkkkkk Nergal :D

Nel lontano 1995 Tuomas Holopainen, l'attuale tastierista e mente della band, fondò i suoi Nightwish, con l'intenzione di creare un gruppo che facesse una musica heavy metal, ma per bilanciare usasse come vocalist una bellissima voce femminile.
E così, reclutato il soprano Tarja Turunen, nacquero i Nightwish, che cominciarono con delle canzonette power metal, che presto saranno sostituite da composizioni più mature, sia dal punto di vista musicale, sia dal punto di vista delle liriche, più drammatiche e profonde negli ultimi album. Forse Tuomas a quei tempi non si rendeva minimamente conto di cosa ingenuamente stesse creando...

Ma torniamo a parlare di "Once": imponente, maestoso, epico, ogni commento sarebbe riduttivo per questo disco, che ogni sua canzone è un piccolo capolavoro.
La prima traccia a cui l'ingenuo ascoltatore si trova davanti è Dark Chest of Wonders, aperto da un riff molto heavy di Emppu Vuorinen, il chitarrista. Dopodiché si allaccia il basso e la batteria, e dopo l'orchestra, trasformandosi in un'introduzione travolgente. Nella strofa il coro fa da contrappunto alla splendida voce di Tarja.
Dopo aver sentito Dark Chest..., l'ascoltatore sarà talmente inebriato che non vedrà l'ora di ascoltare un'altra splendida canzone, e in Wish I Had An Angel troverà pane per i suoi denti! Senza introduzione strumentale, il brano parte subito con un impeccabile duetto tra Tarja e Marco Hietala, il bassista e secondo cantante della band, per poi attaccare con un accompagnamento di chitarra e una batteria elettronica. Il ritornello è interpretato dal vocione di Marco.
Siamo giunti a Nemo, il primo singolo dell'album, nonché la canzone più bella. Delicate note al pianoforte invoglieranno l'ascoltatore ad alzare il volume del suo lettore cd. Un passo sbagliato, poiché verrà investito da una potente onda sonora di chitarra e basso! Nella strofa è presente, oltre alla cristallina voce di Tarja, il basso, e la batteria di Jukka Nevalainen, che è il batterista sin dagli esordi della band. Nel ritornello si riaffaccia la chitarra, e compare l'orchestra, che verso il finale eseguirà un inserto strumentale molto bello.
Cori infernali e cupi fanno da introduzione alla mastodontica Planet Hell, un concentrato di energia negativa, che sfocia in una canzone che denuncia l'assurdità della guerra, in un mondo infernale, senza mezze misure. La strofa è interpretata da Tarja e Marco.
Utile per far riposare un po' le orecchie dopo Planet Hell, Creek Mary's Blood è una canzone che evoca lo sterminio degli indiani d'America da parte dell'uomo bianco. L'intro di questa splendida canzone è affidata a quella che sembra una danza tribale (?), che precede una melodia di chitarra classica e orchestra. Nella strofa Tarja canta con sottofondo dell'orchestra e di varie percussioni. Dopo subentra la chitarra con accordi lunghi ed epici, fino a giungere ad un assolo che riprende la musica del ritornello. Nel finale, John Two-Hawks, un artista Lakota invitato dalla band, recita un poema in lingua indiana.
Uno squillante violino elettrico ci risveglia dal torpore datoci dalla rilassante voce di John. Siamo di fronte a The Siren, ennesimo meraviglioso capitolo di questo fantastico album, una canzone orientaleggiante che evoca, con la sua melodia ipnotica, i richiami di una sirena (Tarja) verso un marinaio (Marco) che, legato, non può raggiungerla.

"Tutte le storie sono state raccontate, tutte le orchidee non ci sono più. Perso nel mio personale mondo, ora mi prendo cura dei giardini morti". Così recita il testo di Dead Gardens, la canzone più decadente di "Once", aperta dal riff più malevolo e funereo mai forgiato nella storia dei Nightwish. Per sottolineare il senso di abbattimento e di malinconia, in questa canzone non è stata inserita l'orchestra. Il finale consiste nella ripetizione ossessiva di un riff pesantissimo (al confronto gruppi come Candlemass o Trouble sono praticamente innocui) che si trancia di netto.
Ben più maestosa ma sempre molto cupa, è Romanticide che continua sullo stesso filone di Dead Gardens, con chitarre con una distorsione prossima al rumore. In questo brano la musica è solo un veicolo per il testo, privo di speranze e probabilmente autobiografico. Molto particolare è il finale, scandito da una chitarra violenta e un basso frustante, che accompagnano il cantato di Marco, che non è altro che un sussurro rabbioso. Con un insieme di urla e grida incazzate la canzone termina e, con essa, la parte più cupa del disco. Probabilmente questa canzone è servita come valvola di sfogo a Tuomas, per eliminare tutta quella energia negativa accumulata, a causa di una forte pressione commerciale, dovuta al successo della band.

"La mia caduta sarà in te. Il mio amore sarà in te. Se tu sarai colui che mi ferirà, io sanguinerò per sempre". Queste altre non possono essere che le parole di un innamorato (corrisposto o no), in fatti stiamo parlando della mitica Ghost Love Score, il vero capolavoro del disco, che supera i dieci minuti di durata.
Questo è un brano molto particolare, non solo per l'esecuzione (metal più ricercato unito alla raffinatezza orchestrale), ma per le tematiche trattate. Infatti sembra che Tuomas, dopo essersi liberato di tutte le ansie e le frustrazioni, abbia il desiderio di ricominciare a cercare l'innocenza e la tranquillità (questo è in realtà tutto il concetto di "Once").

Con il termine del bellissimo finale, scandito da cori epici che recitano la frase che ho citato, termina anche "Once" inteso come concept-album. Le ultime due canzoni, infatti, sono molto belle ma non si ricollegano ai brani precedenti.
Kuolema Tekee Taiteitijan è una dolce ballad nella lingua madre del gruppo, il finlandese. Per certi versi può ricordare Lappi-Lapland del primo cd, "Angel Fall First", ma in Kuolema l'atmosfera è più commovente e meno "da menestrelli".
Higher Than Hope è dedicata a Marc Bruealand, un amico della band recentemente scomparso, dopo aver combattuto una dura battaglia contro il cancro. La canzone si alterna a parti acustiche e improvvise esplosioni elettriche. Verso il finale, si sente la voce registrata di Marc, accompagnata dal battere di una grancassa, come per simboleggiare un passo affaticato.

In conclusione, Once è uno di quegli album che ritengo "universali", cioè che si può trovare anche tra gli scaffali di chi, di norma, ascolta solo black o death metal (esperienza personale). Insomma, a mio parere, il capolavoro della band e uno dei migliori dischi metal in assoluto.

voto 9.5

DANI75

 

 

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  • #1

    amaranth (lunedì, 03 settembre 2012 12:01)

    un 9 ci sta bene :*

"Cos'è il Metal?" Una domanda spesso ricorrente, che non solo viene sovente posta a noi metallari, ma che a noi stessi headbangers a volte capita di porci, quando per esempio il mondo scompare e lascia il posto ad una realtà ulteriore fatta di suono sublime, quando qualsiasi altra cosa è cancellata dalla mente, quando la musica prende possesso del tuo corpo e tu sei solo un pezzo di carne che si sente acciaio, quando il sangue nelle tue vene bolle come lava e si tramuta in scariche elettriche che esplodono al ritmo della batteria e che ti corrono lungo la schiena all'irrompere degli assoli di chitarra, e tu allora avresti così tanta energia in corpo da abbattere a mani nude una montagna.

Il Metal è una forza immateriale trascendente, che ti compenetra completamente se sai accoglierla in te e che è in grado di toccare le tue corde più riposte, proprio perchè è diretta ed istintiva, sanguigna e feroce come l'animale che dorme dentro di te soffocato da millenni di civilizzazione. Il Metal può risvegliare quell'animale, farlo ruggire e combattere, e persino morire. Alcune volte il Metal concentra la propria essenza in dischi particolari, rendendoli sue emanazioni e capolavori del genere, ma altre, rare volte, sembra persino incarnarsi in un particolare album, manifestandosi all'ascoltatore in un'epifania che è fuoco, acciaio, sangue e uragano. La sua incarnazione più completa è senz'altro il colossale, devastante, eccelso "Painkiller" dei Judas Priest: proprio loro che già nei lontani anni '70 avevano forgiato tra le loro mani un Metallo ancora fluido e informe, che si riversava nelle loro fucine dalle fornaci di Led Zeppelin e Black Sabbath, ora, nel 1990, lo riplasmavano nella sua forma definitiva, assoluta, irripetibile, eterna, universale.

Parlare di questo capolavoro mi induce per una volta a rinunciare alla trattazione track by track: le parole infatti non sarebbero in grado di descrivere compiutamente queste dieci canzoni per le quali cinque stelle sono ancora poche, tuttavia tenterò di descriverle sommariamente per le rare persone che ancora non conoscono questo masterpiece. Si parla di Heavy Metal purissimo, si potrebbe dire persino distillato (qualcuno ha parlato anche di Power Metal, ma si tratta solamente di un'inutile puntualizzazione, ancora più trascurabile se si osserva che lo stile è quello classico dei Judas, solo indurito al massimo), dove le due chitarre gemelle di Glenn Tipton e Kenneth K. Downing macinano riffs e assoli al cardiopalma, veloci e furiosi, taglienti e rudi, supportati da una sezione ritmica al fulmicotone che vede, oltre al mitico bassista Ian Hill, la new entry Scott Travis alla batteria, che regala un tocco di potenza e tecnica in più rispetto al pur grande Dave Holland; e su tutto questo, come un orgoglioso demone che aleggia sulle ceneri del mondo, la voce di Rob Halford, che nonostante i 39 anni suonati è in grado di raggiungere acuti con una facilità e una rabbia impensabili anche per uno più giovane: divino e inimitabile, l'unico vero 'Metal God'.

I testi possono ad alcuni sembrare banali, ma la verità è che si tratta di lyrics metal al 100%, che narrano storie di mostri d'acciaio, uragani di fuoco, sanguinose e luciferine ribellioni. Si va dalla classicità di pezzi come "Hell Patrol", "Metal Meltdown" e "Between The Hammer And The Anvil" alla velocità di "All Guns Blazing" e "Leather Rebel", alle atmosfere malate, tetre e demoniache di "A Touch Of Evil" e dell'immensa "Nightcrawler", all'epico di "Battle Hymn" e "One Shot At Glory". Per ultima ho lasciato la leggendaria title track, "Painkiller", appunto, che è in verità la prima traccia del disco, per la quale trovo necessario spendere qualche parola. Il pezzo ci rimanda alla buona abitudine dei Judas di far partire i loro dischi con il brano più violento del lotto (vedi le varie "Sinner", "Exciter", "Rapid Fire", "Freewheel Burning", ecc.) allo scopo di stordire l'ascoltatore e predisponendolo ad accogliere quello che verrà con il retrogusto della prima canzone. Il Painkiller è un mostro e allo stesso tempo un semidio di metallo carico di minacce apocalittiche e pseudomessianiche: Egli verrà infatti un giorno a salvare l'umanità dalle proprie sofferenze, ma l'unico modo che avrà per farlo sarà annientandola completamente; la canzone è di una velocità e di una potenza terribili (la cover che ne fecero i Death non è affatto più dura dell'originale) e l'esecuzione dei cinque è impeccabile ma al tempo stesso passionale al massimo: tecnica sopraffina e sentimento soverchiante per una song che da sola potrebbe bastare a fondare una nuova religione.

La ristampa del disco comprende altre due bonus tracks, vale a dire la versione live di "Leather Rebel" e l'inedita "Living Bad Dreams", una ballad che sa però essere particolarmente aggressiva e carica di tensione, decisamente distante nell'attitudine da altri pezzi del passato come la melensa "Prisoner Of Your Eyes", pur rimanendo nelle medesime coordinate stilistiche.

"Painkiller", come del resto l'omonimo Angelo della Morte della title track, è una teofania del Dio del Metallo che non fa prigionieri: cinquanta minuti di purissimo acciaio mortale e scintillante senza punti deboli. E' l'ideale punto d'arrivo di tutto il Metal ottantiano e pietra di paragone irrinunciabile per tutto il Metal a venire. Qualcuno poterbbe obiettare a tutto ciò che il disco in sè non è particolarmente innovativo, nè è il più duro che sia stato sfornato da una band, e non a torto: l'album riguardo a ciò non ha nulla di nuovo o di speciale, tranne per il semplice fatto che esso è perfetto in ogni suo dettaglio, in ogni secondo di ascolto, che sa esprimere compiutamente il concetto di Metal in sè come nessun altro e regalare emozioni violentissime e una carica mostruosa, da stordire chiunque.

...Cos'è il Metal? IL METAL E' PAINKILLER! IL VOTO AHAHAHHAHA E' RELATIVO.

 

DANI75

 

Ci sono album che, per la loro unicità, è persino troppo scontato dare un voto. Ma se il nostro compito è votare be, per quanto mi riguarda, il 10 che do a painkiller per me è anche poco. By Twolff

 

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  • #1

    kassandra (lunedì, 03 settembre 2012 12:02)

    100000000000000000000000000000000000 this is my vote :)

Al crepuscolo del decennio d’oro dell’heavy metal, gli W.A.S.P. erano in una situazione non semplice: dopo i primi due clamorosi dischi (W.A.S.P. e The Last Command), critica e fan avevano in parte storto il naso per Inside the Electric Circus, sicuramente meno ispirato dei predecessori, seppur di livello accettabile, ad essere onesti. Il combo americano era quindi chiamato a dare prova di non aver già esaurito le proprie cartucce. Fu in questo contesto che, nel 1989, vide la luce questo The Headless Children e fu subito chiaro a tutti che la band era tutt’altro che finita, al contrario, sembrava aver acquisito una maturità compositiva propria delle più grandi formazioni mondiali. Se infatti alle origini il sound di Lawless e soci aveva conquistato il pubblico per l’immediatezza e la furia esecutiva, il quarto album mise in mostra invece delle composizioni più lunghe ed elaborate, anche grazie all’inserimento delle tastiere di Ken Hensley.

L’evoluzione stilistica degli W.A.S.P. è evidente fin dalla prima traccia di The Headless Children. Abbiamo a che fare con una semi-suite, The Heretic (The Lost Child), introdotta da un’ azzeccata intro di chitarra arpeggiata e voci eteree che apre la strada ai tipici riff potenti e, soprattutto, all’inconfondibile voce del singer; da segnalare, inoltre, il graduale aumento di velocità finale, ottima vetrina per la bravura del batterista Frankie Banali. Ecco poi che troviamo, come spesso accade negli album di questa band, una cover “storica”. In questo caso Blackie Lawless -capo indiscusso della formazione- decide di reinterpretare un celebre successo dei The Who, ovvero The Real Me: il risultato è a dir poco riuscito, la velocità ed il ritmo sono letteralmente contagiosi e ci ricordano che, nonostante il maggiore studio dei singoli brani, questi si ricordano ancora come dare “tiro” alla propria musica. La title track è probabilmente l’esempio più evidente del cambio di rotta di cui abbiamo parlato. Vi è infatti una palese ricerca di atmosfere cupe ed inquietanti e di soluzioni diverse dal solito, quali lo spazio dato alle tastiere, il cambio di tempo quasi in stile thrash e, non da ultimo, un testo più ricercato del solito, di cui trovate qui di seguito un estratto:

Father come save us from this madness we're under
God of creation are we blind?
Cause some here are slaves that worship guns that spit thunder
The children that you've made have lost their minds
This monster that we call the earth is bleeding
Cause the children have been left alone too long
This thing that we've made is fat and feeds on the hate
Of the millions that it's taught to sing the song


Thunderhead è l’ennesimo schiaffo a chi credeva morti gli W.A.S.P.: ad un’emozionante intro, affidata ad un pianoforte e ad una voce stavolta più delicata, segue un brano solidissimo e potente, il quale, nonostante la lunghezza superiore ai sette minuti, non vede nemmeno un momento di stanca e propone un’interessante parte centrale, fatta di voci misteriose e strazianti e di un lungo assolo di chitarra. Con Mean Man sembra di tornare ai precedenti lavori degli W.A.S.P. poiché tornano a farla da padrone la velocità e la furia esecutiva: la traccia è gradevole, è innegabile, anche se non si può certo parlare di capolavoro. Lo stesso discorso vale per la seguente The Neutron Bomber, la quale risulta tuttavia più elaborata e ci offre un’altra grande prova alle pelli (sbaglio o l’intro è uguale a quella di Love Gun dei Kiss?). Mephisto Waltz è un semplice intermezzo strumentale che ci conduce alla ballatona del disco, nonché una delle hit dell’intera discografia della band: Forever Free, la quale, come ogni ballad che si rispetti, riesce ad essere emozionante e profonda senza però risultare smielata. Maneater è un’altra canzone quadrata ed inattaccabile, in cui ogni membro esegue il suo compito senza sbavature (come sempre in evidenza le chitarre), seppur manchino spunti particolarmente curiosi. Rebel in the F.D.G. -la sigla sta per Fucking Decadent Generation- chiude alla grande il lotto, configurandosi come una sorta di crocevia fra i “vecchi” ed i “nuovi” W.A.S.P.. Il pezzo ha infatti un gran “tiro” ma non si può catalogare semplicemente come easy-listening perché vi sono delle scelte ben studiate, in primis quella di inserire una parte in cui Lawless, invece che cantare, parla con tono teatrale. In conclusione, se non l’avete ancora capito, The Headless Children è un album di qualità elevatissima, manifesto di una band spesso sottovalutata o considerata capace di creare solo dei brani “ruffiani”.
Gli W.A.S.P., tuttavia, non si fermarono qui e tre anni dopo dimostrarono ancora una volta il loro valore con lo strepitoso The Crimson Idol, forse l’apice della loro carriera. voto 8.5

Dany75

 

 

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  • #1

    Twolff (sabato, 08 settembre 2012 07:23)

    Questo è album altro che Still not black enough

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In seguito al fortunato secondo album “Dusk…And Her Embrace”,   i Cradle tornarono alla carica circa due anni dopo con un concept album molto ambizioso dal titolo “Cruelty And The Beast”. Si tratta di un disco che non solo mantenne le aspettative, ma che si pone ad anni di distanza come uno dei lavori più maestosi e complessi del symphonic black metal, ma anche del black e metal estremo in generale. La formazione che i Cradle misero in campo con “Cruelty And The Beast” è forse una delle più tecniche ed interessanti della loro storia, con Lecter (all’epoca ex Anathema, ora nuovamente in forze ad essi) alla tastiera e le riconferme del chitarrista Gian Pyres e del devastante drummer Nicholas Barker. “Cruelty And The Beast” è un concept album, in questo caso tutto ruota intorno alla figura della “Blood Countess”, stiamo parlando di Elizabeth Báthory, vero e proprio “pallino” di Mr. Filth e soci. I testi sono scritti come di consueto da Dani e si presentano come molto lunghi, complessi ed articolati. L’iniziale “Once Upon Atrocity” ci introduce con magniloquenza in un mondo oscuro e tormentato, melodie serpeggianti si fanno largo su accordi ribattuti ed ossessivi, sino a sfociare nella ormai storica “Thirteen Autumns And A Widow”, tutt’ora tra i cavalli di battaglia della band. L’attacco di tastiera con i fraseggi di chitarra e l’accompagnamento di Nicholas, precedenti all’acuto di Dani, sono inconfondibili. “Thirteen” è un brano decisamente complesso nel suo insieme, composto da improvvise accelerazioni, stacchi ammalianti e ripartenze ben orchestrate. Lecter è bravissimo nel creare melodie magniloquenti e serpeggianti che si alternano a momenti più evocativi e mistici attraverso l’uso di molte parti accordali. La successiva “Cruelty Brought Thee Orchids” ci porta ad un livello superiore, inconfondibile il ritornello composto da poche note di tastiera che si ripetono, ma che unite agli inserti vocali femminili (presenti in quasi tutto il disco e come sempre fondamentali) ed alla voce martellante ed inumana di Dani creano un mix unico e capace di rimanere impresso nella memoria dell’ascoltatore. Anche la cavalcata iniziale è spettacolare, chitarre cupe e castigatrici portate avanti dal drumming di Nicholas, si affiancano alla tastiera che evoca accordi suonati in ottave e discese da paura. “Beneath The Howling Stars” chiude questo terzetto cupo e criptico, dannato e mefistofelico, formato da brani che la band continua tuttora a proporre dal vivo. Anche nel caso di “Beneath”, l’introduzione di tastiera di Lecter è da Oscar. Penso che solo questa prima parte del disco valga l’acquisto dell’album, siamo di fronte ad ottima musica. L’interludio “Venus In Fear”, creato esclusivamente con tastiera, campionamenti e suoni, ci porta alla seconda parte del disco, anch’essa molto valida, ma che non mantiene del tutto la tensione generata nella prima parte. Le violente e vampiriche “Desire In Violent Overture”, (“How sleep the pure, Desire in Violent Overture” urla Dani) e “The Twisted Nails Of Faith”, quest’ultima introdotta da una tastiera a dir poco orrorifica, precedono la traccia più enigmatica ed articolata dell’album. E’ la volta infatti di “Bathory Aria”, colossale opera formata da tre brani “Benighted Like Usher”, “A Murder Of Ravens In Fugue” e “Eyes That Witnessed Madness”. Chiudono il disco l’ottimo brano di tastiera “Portrait Of The Dead Countess”, molto azzeccato visto il concept dell’album e oltretutto utile per riposarsi un attimo dopo l’ascolto di “Bathory Aria”. La conclusiva “Lustmord And Wargasm”, anch’essa introdotta da una magistrale parte tastieristica, chiude in maniera forse un po’ pesante un disco che già di suo è molto tosto. Come ogni album dei Cradle anche questo non fa eccezione e molti sono gli aneddoti legati ad esso: innanzitutto esistono una marea di versioni differenti dell’album: quella con confezione stile croce celtica non include le ultime due tracce originali, ma in compenso presenta diverse bonus track, tra cui varie cover di metal band famose. Queste tracce potete trovarle anche nel cd raccolta “Lovecraft & Witchhearts”. Esiste inoltre un’edizione di “Cruelty And The Beast” in due dischi che vede nel primo cd il disco originale e nel secondo le bonus track della “Celtic Cross” edition. L’edizione giapponese di “Cruelty And The Beast” invece vede come bonus track la cover di “Hallowed Be Thy Name” in una versione esclusiva. Un’altra curiosità legata al disco riguarda la batteria: alcuni “maligni”, sussurrano che la batteria incisa in questo album non sia stata suonata da Nicholas, ma che sia stata realizzata direttamente con una batteria elettronica. La precisione del drummer è talmente elevata che in effetti lo si potrebbe anche pensare, ma non esistono fonti certe a riguardo, personalmente penso si tratti di batteria non elettronica. Forse la verità è che Nicholas usò un trigger, apparecchiatura non molto diffusa all’epoca. Mistero. Ultima (?) curiosità legata al disco, nella traccia “Bathory Aria” troviamo un inserto vocale della compianta attrice Ingrid Pitt (deceduta nel 2010, attiva soprattutto tra fine anni ’60 e anni ’70, vista ad esempio in “The Vampire Lovers”), molto stimata da Dani. Non di secondaria importanza sono le magnifiche realizzazioni grafiche che accompagnano l’album, la band studiò un look che spaziava dal libertino al gotico, dal dark al vampirico per le foto di rito e introdusse nel booklet le splendide immagini di Wingrove & Bell, la front cover dell’album, sempre realizzata da questi ultimi, con Eileen Daly a mollo nella vasca da bagno, è Storica. “Cruelty And The Beast” è un must non solo per ogni appassionato di symphonic black e metal estremo in generale, ma anche per ogni appassionato di musica sui generis. Siamo di fronte ad un capolavoro, probabilmente mai più ripetibile. voto bhe!!! come si puo' dare un voto a un opera cosi sarebbe come dare un voto ad un picasso.

Morpheus

 

                                                                                                                    

 

Ragazzi,qui siamo di fronte al capolavoro dei cradle of filth,anche se la discografia di questi ,purtroppo,dopo cruelty and the beast e subito dopo sfociata in un anch'esso irripetibile midian,e'tutt'ora costellata da vari esperimenti mal riusciti,e progetti ,che a mio avviso,non si addicono al loro vero stile abbandonato molti anni fa or sono.  Voto  9. By Rexor

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

EH!! E CUMU TU CUNTU DICONO AL MIO PAESE....IMAGES AND WORDS è considerato il capolavoro dei Dream Theater; pietra miliare nel mondo del metal progressivo e termine di paragone per ogni nuova uscita discografica in questo settore. La band dimostra come sia possibile fondere in modo perfetto tecnica, songwriting, atmosfera ed immagini che parlano attraverso le note, senza perdere di vista con eccessivi virtuosismi lo scopo stesso della canzone. La grande sfida dei Dream Theater (ampiamente vinta) è stata quella di unire le caratteristiche della musica progressive creando nello stesso tempo brani orecchiabili e diretti.Pull Me Under, brano d’apertura con scale e controscale che si alternano con una semplicità disarmante. Seguono Another Day, Take The Time e Surrounded (tre ottimi brani che spaziano dalla classica ballata ad un prog rock di stampo metallico).


Il capolavoro è però Metropolis – Part I “The Miracle And The Sleeper” e la tematica delle tre danze universali (la morte, l’inganno e l’amore) viste attraverso gli occhi del miracolato e del dormiente. Un brano (tipicamente progressive e dunque da ascoltare mille volte per essere assimilato al meglio) capace di bombardare l’ascoltatore con un’enormità di emozioni. Ed è qui che le doti compositive dei 5 musicisti vengono messe in luce: Portnoy alla batteria con ritmiche precise e difficilissime, John Myung, al basso, ci delizia con un veloce tapping mentre John Petrucci si inventa assoli altamente originali e tutt'altro che scontati dimostrando di essere uno dei migliori chitarristi sulla piazza (non per niente ha partecipato a un G3 con Joe Satriani e Steve Vai). Kevin Moore, alle tastiere, crea atmosfere irreali mentre il cantante James LaBrie mette in mostra un ampiezza vocale invidiabile.(POTENZA VOCALE CHE A MIO AVVISO NON RIAVRA' MAI!!)

Da segnalare anche l'ultima canzone: Learning To Live; un inno alla vita, con un travolgente e lungo assolo di chitarra e tastiera che delizierà le vostre orecchie. Superfluo dire che i testi sono assolutamente da leggere (i temi trattati ruotano attorno alla figura dell'essere umano in rapporto alla vita).

Si tratta dunque di un disco da avere a tutti i costi se amate la buona musica suonata da gente intelligente ed ispirata. Una fabbrica di Immagini e Parole perfettamente amalgamate.

Chi poteva partorirla se non il Teatro dei Sogni?

 

VOTO 10

MORPHEUS

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo un forte cambio di formazione, che vede rimanere solo il chitarrista Jesper “the jester” Strömblad, Ljungstrom e Larsson, gli In Flames raggiungono per la prima volta una formazione stabile e si apprestano così ad incidere il loro vero debutto concreto: The Jester Race posiziona gli In Flames come una delle band emergenti della scena di Gothenburg più promettenti e costituisce le fondamenta di uno spettacolare punto d’incontro fra le sonorità e l’attitudine dell’Heavy Metal classico con la rabbia e il canto in growl del Melodic Death Metal sorto nel primo quinquennio degli anni ’90 proprio a Gothenburg (una scena da cui poi sarebbe scaturita un'esplosione di gruppi a volte chiamata New Wave Of Swedish Heavy Metal).

La corrente del melodic death metal era stata pionierizzata in principio con gruppi come i Sceptic Boiler, i Ceremonial Oath e soprattutto gli At The Gates, la loro anima death era radicata in loro fino al midollo e avrebbe influenzato numerosi gruppi svedesi da lì a venire, ma ne portavano una nuova interpretazione che rendeva meno esasperata la musica e più aperta a relative distensioni, anche per via delle influenze regionali a cui andava incontro la Svezia (dal black metal norvegese al thrash teutonico). A loro ben presto si aggiunsero altri pionieri come i Dark Tranquillity. Ma la vera svolta arrivò dall'Inghilterra, dove i Carcass diedero alla luce Heartwork che per primo aprì le porte con la tradizione British metal iniziando così ad abbattere i muri del death metal.
Ora a raccogliere il testimone sono gli In Flames di prima formazione, che propongono la loro visione personale del genere prendendo, sì, dal settore estremo una base ritmica aspra, martellante e ossessiva, non solo per basso e batteria ma anche per le chitarre che sfornano chords ruvidi e di impronta thrashy; però intrecciando il tutto con tripli attacchi di chitarra melodica che rievocano i virtuosismi della NWOBHM per il piglio trascinante e il ruolo armonico conferito agli strumenti, mentre gli stessi refrain si adeguano seguendo una forma canzone più convenzionale e radio-friendly, con motivi ripetuti e relativamente immediati.
L'idea è che si tratti di una formazione che in fondo all'animo ha un cuore melodico heavy metal ma che va a suonare death, come nei riff più duri e marcati e nelle sequenze consistenti in un aggressivo martellamento chitarra/batteria; laddove invece un disco come Heartwork suona all'opposto, cioè come una divagazione più influenzata dall'heavy e relativamente melodica di un gruppo che si mantiene death nell'animo di base.
Nel frattempo, i testi seguono canoni più poetici ed esistenziali, distaccandosi dalla tradizione estrema più cruda e macarba.
Aggiunto a questo, influenze di matrice folk permeano l’album facendosi sentire con vari spunti acustici che impreziosiscono l'album.
Detto ciò e constatando l'attitudine compositiva alla base dell'album, sembra proprio che gli In Flames si siano allontanati molto dal death metal convenzionale, ma a rammentarci il legame con le loro origini ci sono comunque attacchi più aggressivi e brutali e soprattutto il canto in growl di Anders Friden, conosciuto in precedenza con Skydancer dei Dark Tranquillity e che ora attua un vero e proprio scambio di testimoni con Mikael Stanne, passato all'altra formazione.

The Jester Race è così una pietra miliare seminale che combina gli aspetti salienti di due tendenze opposte e che sarà un punto di riferimento imprescindibile per molte formazioni (svedesi, ma anche americane e non solo) che copieranno molto dagli In Flames.

L’iniziale Moonshield è il primo esempio di quel che l'album offre: dopo l’introduzione di spensierati intreggi acustici, scatta con i suoi riff energici e orecchiabili, gli assoli melodici, i brevi intermezzi di nuovo acustici e il growl basso e catarroso di Anders Fridén.
La materia di cui è composto l’album è fin qui elencata, mancano ancora gli spunti più estremi, più alla At the Gates per dirci, che troveranno maggiore spazio nel corso dell’album, dando luogo anche a vere e proprie sfuriate di rabbia viscerali in alcuni casi, ma per ora il secondo brano, The Jester Dance, è ancora lontano da questo, una strumentale orecchiabile i cui arpeggi clean sovrastanti l’impianto ritmico in buona evidenza vengono periodicamente spezzati da brevi prese di posizione della chitarra più impegnate a generare atmosfera.
La successiva, famosa Artifacts of the Black Rain ritorna sui passi di Moonshield ma la fa con molta più velocità e con più vigore, dai pedali della cassa più frenetici quando figura il veloce e potente riff, rendendo il brano uno dei migliori del disco.
Graveland parte con una batteria martellante ed una chitarra corrosiva in puro stile thrash/death alla At The Gates, ma con ancora elementi del lato più melodico del disco, ed alcuni brevi versi in voce pulita di sottofondo ogni tanto.
Lord Hypnos è leggermente meno rabbiosa ma con atmosfere più oscure, almeno fino all’intermezzo centrale con presenza di chitarre acustiche che rievoca pienamente l’elemento folk.
Dead Eternity è probabilmente uno dei migliori tre brani di tutto il repertorio, inizio improvviso e veloce che si divide poi in una chitarra ritmica marcata ed una solista dal piglio molto orecchiabile, salvo poi interrompersi per un monologo oscuro di arpeggi del basso.
La successiva titletrack The Jester Race è un brano più particolare, con chitarre acustiche molto catchy ed una chitarra maggiormente in funzione ritmica e, in simultanea con i colpi del pedale, ricreante atmosfere tendenzialmente più cupe, almeno fino al limpidissimo assolo; si aggiungono sporadici sample all’inizio ma in fondo trascurabili.
December Flower inizia violentemente nel più puro stile death metal toccato dall’album, ma ben presto la commistione ha il sopravvento e si intramezzano assoli più "classicheggianti" con i riff granitici... però poi l’attacco iniziale torna e Fridén si fa sempre più angosciante, carico di un growl violentissimo. Probabilmente il picco estremo dell'album.
La strumentale Wayfaerer è la più maideniana di tutti, il riff iniziale è a prima vista ancora richiamante la scuola di Gothenburg ma al minuto di brano subito la struttura della canzone si fa vicinissima a canzoni come 22 Acacia Avenue, mentre gli assoli di sottofondo portano impresse l’ispirazione anglosassone.
Si chiude quindi con Dead God in Me, ritorno a stilemi death dominanti il brano, che riduce le parti più melodiche e si incentra sul lato più Gothenburg-oldschool-style, che sul finire si dissolve in un effetto cavernoso e continuo, portatore di sinistri presagi mentre un neonato piange in lontananza; ma il brano ricomincia con i suoi riff schiacciasassi, insieme ad un inutile urlo di donna per rendere, teoricamente, più tormentante il brano, chiudendosi di lì a pochi secondi.

Il piglio melodico e trascinante tipico del metal britannico, il personale senso della melodia negli assoli, gli spunti acustici, la tempesta fomentata dalle radici melodic death metal nonché la sensibilità lirica (a proposito, i testi sono realizzati da Niklas Sundin dei Dark Tranquillity sotto indicazioni di Anders Fridén, segno che c’è ancora collaborazione con i vecchi compagni) e musicale scandinava si coniugano magnificamente in questo disco.
Il growl rabbioso di Fridèn si adatta bene all'atmosfera di tutto il disco, senza stonare neanche nelle parti più melodiche (o meglio, non troppo), le sue linee vocali sono nettamente migliorate rispetto a quanto fatto con i Dark Tranquillity nel 1993 e prima.

Per finire, bisogna dire davvero che il piglio melodico è generalmente calzante a pennello con quello che potrebbe essere un bardo, un menestrello...un "giullare", proprio, che allieta gli ascoltatori con la sua musicalità trascinante e il suo carisma.
Non tutti potrebbero gradire la misura musicale del british metal e/o la rabbia melodic death svedese, soprattutto chi è abituato alla scena death metal di Stoccolma (e quindi a gruppi più "genuini" come primi Entombed o Dismember), ma chi è avezzo ad uno solo di questi generi troverà molto di cui essere soddisfatto nel singolare connubio di The Jester Race, un album che, difatti, seppe farsi ammiratori sia dell'uno che dell'altro pubblico contribuendo a istituzionalizzare il melodic death metal nel mondo.

voto 10!!!!!!

Morpheus

 

                                                                                                                                                                    

"Il mondo è un vampiro": lo sa bene Billy Corgan, lo descrive ugualmente bene, attraverso queste due ore di rock emozionanti. Due sono i sentimenti che traspaiono in questo disco: rabbia e tristezza, infinite, vivide, dolenti diversamente, che prendono forma musicale in questo doppio cd.

Emozionante. Ascoltarlo può far male. Può far male, può infastidire la voce nasale di Corgan che intona versi commoventi e reali, commoventi perchè reali. La sinfonica "Tonight tonight" è maestosamente presa per mano dai violini, condotta all'altare sacro della musica rock. Il tempo per l’ascoltatore di riprendersi da tale sfarzo musicale che le Zucche aggrediscono l'ascoltatore con una scarica di pura rabbiosa adrenalina. "Welcome to nowhere", questo l'inizio di "Jellybelly", che è solo la terza canzone del disco, ma subito ci accorgiamo di quanto sia bello il perdersi in questa magnifico triste niente.

E' il tempo di "Zero" e a questo punto capisci che le parole e le taglienti chitarre di Billy sono come schegge di vetro che si infilano nel cuore, che pungono l'anima, che annichiliscono e distruggono ogni ostacolo sulla strada dell’empatia tra te e lui. Tra distorsioni e riff imponenti si giunge a quello che può essere considerato il capolavoro dell'album: "Bullet with butterfly wings". La voce di Billy Corgan raggiunge livelli notevoli di espressività, tormenta e recide ogni nostra resistenza. Il basso e la batteria ci introducono in un vortice, in un'annichilente ruota per criceti, in un mondo vampiro, senza salvezza, senza alcuna certezza. Questa alternanza di stati d’animo, di acustico e distorto, di “rage” and “sadness”, è il leit motiv di questo bellissimo album curato nei minimi dettagli, anche a livello di artwork. La delicata "To forgive" fa capolino subito dopo "Bullet with butterfly wings": un Billy Corgan intimista e raccolto convoglia la sua rabbia in malinconia.

Rabbia devastante, distorta torna "An ode to no one": cambi di tempo repentini e chitarre che rombano e ruggiscono violente ed aggressive. Altri episodi degni di nota nel primo dei due dischi sono "Cupid de Locke", deliziosa ballata di clavicembalo e arpa, "Love", ricca di effetti applicati sia alla voce sia alle chitarre e la "psichedelica" "Porcelina of the vast oceans", lunga oltre i nove minuti, la maggior parte dei quali strumentali. Il secondo disco non è forse all'altezza del primo, ma anche qui non mancano le belle canzoni come "1979" e "Bodies". Proprio questo non mi permette di dare a Mellon Collie il massimo dei voti. Forse avrebbe giovato la riduzione ad un unico cd (si ha l'impressione di ascoltare alcuni riempitivi lungo l'intera opera, soprattutto nel secondo disco), ma si sarebbe anche distrutta, in questo modo, la struttura concettuale e antinomica dell’opera, che è come generata dall’opposizione di momenti disgreganti tra loro, un Pólemos vitale e fertile : ci troviamo di fronte ad un doppio dai toni : l'anima del poeta che si scinde e che racconta i suoi due volti, non opposti, ma complementari, non antagonisti, ma fondamentali l'uno per l'altro, il giorno e la notte, luce ed ombra, amore e morte.

L’impianto apparentemente fragile regge e calamita chiunque. Il disagio umano è difficile da raccontare senza cadere nella più bieca retorica. Billy Corgan è riuscito in questo intento. Piuttosto bene anche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con Operation Mindcrime i Queensryche scrivono il loro capitolo più famoso ed affascinante nonché uno degli album più intensi che la storia musicale ricordi. Usciti con un omonimo E.P. di debutto (quello di Queen of the Reich) nel 1983 e dediti a sonorità tipicamente heavy con copiosi richiami ai Maiden hanno saputo fin dai loro esordi combinare la potenza propria della N.W.O.B.H.M. a linee melodiche più complesse, assoli funambolici ed un gusto della melodia molto personale. Il loro stile si evolve con The Warning prima e con Rage For Order poi, ma è indubbiamente con quest’ album che la band di Seattle raggiunge il suo apice compositivo.

Si tratta di un concept molto affascinante, una critica alla società (americana e non) attraverso la storia di un adolescente che crede di poter reagire al malessere che lo circonda affidandosi completamente nelle mani del folle Dr X, un tiranno megalomane che lo porterà ai limiti dell’ autodistruzione. Il tutto raccontato in maniera affascinante, quasi come in un film, attraverso brani indimenticabili come Revolution Calling (uno di quei ritornelli che non ti lasciano più), Spreading The Desease, potente e dinamica e la complessa e progressiva Suite Sister Mary.
Anche se citare qualche pezzo isolato in questo caso ha poco senso, non si possono ignorare le melodie intricate, complesse ma allo stesso tempo coinvolgenti di Speak e I Don’t Believe in Love. De Garmo si dimostra un chitarrista preciso, originale e versatile mentre Tate stupisce per un’ estensione vocale ed una maestria che spiegano perfettamente come mai sia diventato uno dei cantanti più influenti (e imitati) degli ultimi 20 anni.
In realtà non ci troviamo di fronte ad un album prog metal nel senso stretto del termine, ma è indubbio che l’influenza esercitata dai Queensryche sulla nascita e sullo sviluppo del genere non può essere ignorata. Sono infatti stati tra i primi (con Fates Warning e Crimson Glory) a tentare di evolvere quelli che erano i principali stilemi musicali dell’heavy metal classico, inserendo partiture musicali complesse e melodie meno lineari, cercando ad ogni passo di sorprendere l’ascoltatore con trovate mai banali. Certo è che dalla parte dei Queensryche c’è non solo la perizia tecnica (la loro musica al tempo fu anche chiamata techno metal), ma soprattutto un’espressività ed una versatilità veramente invidiabili, merito della band al completo (Scott Rockenfield è probabilmente uno dei batteristi più sottovalutati della storia), ma è ovvio che una menzione d’onore spetta al grande Chris DeGarmo, impareggiabile nel saper conferire ad ogni brano personalità e incisività, per non parlare dell’incredibile gusto melodico grazie al quale è in grado di esibirsi in assoli memorabili. voto 9

 

morpheus

 

Beh, cosa dire di questo album? Direi unico nel suo genere. L'apice dei queensryche. Il loro cavallo di battaglia. D'altronde gli anni '80 hanno segnato la storia del metal insieme a painkiller e tanti altri. voto? naturalmente daccordissimo con morpheus ossia dani 75.By Twolff  

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scelta bizzarra e audace per i Therion. Questi "Lemuria" e "Sirius B" non sono infatti un doppio album, ma due album nel vero senso della parola, che per i primi periodi sono stati  venduti insieme, e che ora acquistabili separatamente. Mi aspettavo che fossero totalmente diversi, magari uno più orchestrale ed uno più metallico, ma sbagliavo alla grande. È come se fossero un unico, lunghissimo disco, con una sua armonia interna perfettamente funzionante. Evidentemente i signori Therion o meglio quel genio indiscusso di kristopher jhonson ha attraversato un periodo di grande creatività, e non si e' sentito di sfoltire e accorciare il suo capolavoro. Scelta pericolosa, ma particolarmente azzeccata: i due dischi sono entrambi delle perle, savrebbe stato un sacrilegio compattarli in un solo disco. Ogni singolo pezzo sta bene dove sta, non ci sono filler neanche a cercarle col lanternino.

Il sound è quello tipico dei Therion, con un pizzico di sperimentazione: ai pezzi sinfonici sono affiancati più spesso che in passato pezzi particolarmente metallici, e addirittura dei piccoli inserti di elettronica (decisamente in secondo piano, ma significativi). La produzione è semplicemente perfetta: un lavoro enorme è stato svolto dalla band, che per nove mesi ha suonato, ha arrangiato e ha collaborato con ben 170 (centosettanta!) musicisti, ottenendo un disco a metà tra Hollywood (non come i Rhapsody) e il metal più duro.
 Ad ogni ascolto "Lemuria" e "Sirius B" rivelano tante piccole perle nascoste, e nonostante la loro inusuale lunghezza non stufano.
kristopher sei un genio solo la tua genialita' poteva partorire Vovin, Deggial , e questi.........seguiti da Gothic Kabbalah altra genialata di lui l'artista, il genio. voto  8,5

 

MORPHEUS

 

 

Commenti: 1 (Discussione conclusa)
  • #1

    TWolff (mercoledì, 07 novembre 2012 16:49)

    I Therion, non c'è che dire, hanno una vena stilistica musicale fuori dagli schemi. Ascoltando questo magnifico album mi viene solo da dire: MICIDIALI!!!

Recensire un disco quale “Rust In Peace” non è cosa da poco. E’ senza ombra di dubbio il disco più sperimentale della carriera dei Megadeth, punto di riferimento per molte thrash metal band attuali. Un solo ascolto non basterebbe per comprendere appieno i suoi elaborati riff, le geniali intuizioni musicali, il gusto formidabile nella composizione degli assoli e gli arrangiamenti. Ci troviamo dinanzi ad un thrash veloce e tecnico, in cui si concretizza tutta la violenza sonora e l’esperienza di Mustaine, coadiuvato per l’occasione da grandi musicisti che impreziosiscono ogni brano rendendolo una vera e propria chicca. Il livello di produzione è sicuramente superiore ai dischi precedenti “So Far, So Good ... So What!", per citarne uno o gli esordi di “Killing Is My Business”, nei quali il budget fu investito in droghe. Per questo capolavoro Mustaine recluta Nick Menza e Marty Friedman, ciò che di meglio si potesse desiderare: del primo si nota lo spaventoso drumming tecnico e potente (in alcuni brani quasi di scuola jazzistica), mentre a Friedman si deve almeno il 50% della raffinatezza degli arrangiamenti, col suo unico stile orientale/esotico che lo ha sempre contraddistinto sin dai tempi dei Cacophony con Jason Becker. E’ giusto precisare che Mr. Mustaine si è sempre avvalso di musicisti che avessero un quid pluris, qualcosa che si allontanasse dal semplice frastuono thrash per creare un’innovazione musicale ai primordi di un genere più cattivo dell’allora già consolidato heavy metal; gente come Chris Poland e Gar Samuelson. Il risultato è inequivocabile: roba armonicamente più complessa rispetto a bands quali Metallica o Slayer, capostipiti anche loro del genere già citato. Ma torniamo a “Rust In Peace”. Il disco si apre con il singolo e video ufficiale “Holy Wars…The Punishment Due” uno dei brani più coverizzati della storia del Thrash. Dimenticatevi la vena drammatica dei tempi di “In My Darkest Hour” il testo è davvero violento, come suggerisce il titolo, l’argomento trattato è la guerra, tema molto caro a Mustaine. Davvero belli i soli di Friedman, soprattutto quello nella parte centrale in clean. “Hangar 18”, secondo singolo del disco e anche secondo video ufficiale, si presenta con un intro davvero pesantissimo (la parte iniziale del brano suonata ad accordi aperti) riprende di preciso “The Call Of Ktulu” dei Metallica (composta ai tempi anche da Mustaine), a metà canzone, quando diventa strumentale, viene arricchita dai fantastici assoli di Marty e da quelli più cattivi e dai pochi fronzoli di Mustaine. La colossale “Take No Prisoners“ tratta dello sbarco in Normandia. Qui Mustaine si sofferma a parlare sulla storia di un sopravvissuto che, dopo aver subito delle mutilazioni in guerra, viene dimenticato dalla società e considerato ormai uno “scarto”. Oltre ad essere tecnicamente impossibile di suonare (provateci) è un’incredibile scarica di adrenalina. “Five Magics” ha un inizio cadenzato che potrebbe distogliere l’attenzione dell’ascoltatore, pur avendo uno stupendo arpeggio di basso. “Poison Was The Cure” è invece un brano dal ritmo sostenuto caratterizzato dall’incedere tipico del pogo. Si rallenta di nuovo con9 “Lucretia” per poi arrivare all’ennesimo tormentone, “Tornado Of Souls“ momento cruciale dell’intero album, in particolare grazie al solo di Friedman, vera perla. “Down Patrol” è il brano che più mi ha incuriosito per la sua semplice ma efficace composizione (batteria, basso e voce): un bel lavoro svolge qui Ellefson al basso. Infine, si arriva alla bellissima “Rust In Peace…Polaris”. Ricercato il testo sognatore e drammatico che narra di un’entità superiore che regge il destino del mondo tramite la stella polare, probabile responsabile della fine del mondo. L’intero album, secondo il mio parere concept a tutti gli effetti, promuove il disarmo (anche se non sempre è palesata e chiara l’ideologia in tal senso), e questo brano ne è una prova, nonostante Mustaine abbia sempre preferito lasciare un alone di dubbio e mistero in proposito. “Rust in Peace” resta una vera e propria perla del thrash targato Bay Area, un must intramontabile per qualsiasi amante del metal. voto 8,5

 

morpheus

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scoccò la mezzanotte e si spalancarono le porte del palazzo. Il cielo era coperto di nubi, quasi come fosse un manto di piombo, lasciando filtrare solo un raggio della diafana bellezza lunare.
Varcai la soglia e il portone si richiuse sbattendo alle mie spalle, scrollandosi la polvere di dosso. Ero in trappola. Non rimaneva che avanzare verso il centro della maestosa architettura, cercando di sopravvivere al crescente senso di malessere sopraggiunto in me dopo l’ingresso.
Finalmente dopo quasi un’ora di peregrinazione si profilò la stanza del sovrano, quasi completamente buia e pervasa di un’atmosfera solenne: dinnanzi ai miei occhi l’oscurità trionfante sedeva sul trono. Un’ombra, attorniata da cinque figuri che la lusingavano con occhiate lussuriose.


Questa è la sensazione che ho avuto dopo l’ascolto di Enthrone Darkness Triumphant, album che dal momento della sua uscita, nel 1997, non finisce di fare storia nel metal estremo. Un monito per i futuri propugnatori della bandiera del symphonic black metal, un pilastro nella carriera dei Dimmu Borgir.
Questo capitolo segna una svolta nel sound dei norvegesi, un superamento di quanto già espresso nell’eccellente predecessore Stormblåst . La proposta non si discosta dal black metal, ma si arricchisce della tastiera, mai presente in così grande misura nei precedenti lavori. Il risultato di questo cambiamento si riflette nell’inserimento di numerosi elementi sinfonici e nel raggiungimento di una maggiore ricercatezza melodica, creando un lugubre sound che risulta maggiormente personale.
 

L’ouverture elegante di Mourning Palace è il passo maestoso e regale dell’oscurità presente nel disco. Circonda con la sua aura maligna il malcapitato, trascinandolo nelle tenebre. Alternando momenti dal carattere luttuoso a stacchi intrisi di potenza, l’opener scaraventa l’ascoltatore nel pieno della tempesta lasciandolo succube dell’incanto dei norvegesi.
Ma la raffinatezza di gusto sinfonico è solo una delle sfaccettature presenti in Enthrone Darkness Triumphant: alla pari troviamo violenza   di scuola black, frangenti dal timbro sinistro ed inserti atmosferici con melodie dalla grande delicatezza. Il tutto amalgamato in un equilibrato connubio che prende elementi da ognuno dei diversi aspetti.
Allora se si ricercano blast beat e graffianti linee di chitarra fuse in una slavina impetuosa la doppietta Master Of Disharmony e Relinquishment Of Spirit And Flesh non deluderà le orecchie: la batteria veemente di Tjodalv e lo scream di Shagrath fanno il loro sporco lavoro senza mai scadere nella banalità. In particolare il lavoro vocale di quest’ultimo è, a mio avviso, sicuramente una delle migliori prestazioni mai eseguite: uno scream profondo ed intricato, pervaso di malvagità pura. In alcune occasioni fa capolino addirittura un convincente growl che inspessisce le parti vocali, donando potenza al cantato. Nulla a che vedere con le future sperimentazioni ed effetti che non restituiranno mai la bruciante laringe al cantante.
Se invece si preferiscono intermezzi melodici dalle atmosfere più lacrimevoli, magari conditi dai tasti in avorio di Stian Aarstad, In Death’s Embrace appagherà il desiderio con i suoi soavi accompagnamenti. Ma il compito di fregiare i brani spetta anche alle sei corde di Silenoz e Shagrath che rivestono il duplice ruolo di croce e delizia muovendosi tra rasoiate in tremolo picking e armonie strazianti, come nella chiusura della sublime A Succubus In Rapture.
Tra i due estremi si trovano una serie di brani molto eterogenei che non si concentrano su un solo aspetto, ma fondono le sinfonie e la spietatezza dei cinque scandinavi ottenendo atmosfere spettrali, pervase dal verbo malsano e dal palpitare irrequieto del basso di Nagash. Putride paludi dell’ossessione per tutto ciò che è perverso:

You have returned to the torture chambers
To find peace among the rotting corpses
You have returned to the execution place
To inhale the smell of blood


Prendere i brani ad uno ad uno e sviscerare il contenuto dell’album è commettere violenza nei confronti della sapiente miscelazione operata dai Dimmu Borgir, come a voler separare i liquori che compongono un cocktail dopo che questo è stato shakerato. Non ha senso ricercare il sapore assoluto di ciascuno degli ingredienti quando si può gustare l’effetto dovuto al loro mescolamento, gli aromi che si accavallano e si fondono creando effluvi sopraffini che confondono il palato e lo deliziano.

che dire di certo la carriera dei dimmu e' fatta anche di blocchi come dice mr. horrorscape ma lasciatemelo dire questo disco merita 8

Morpheus

 

 

Quando comprai questo album non credevo fosse articolato e strutturato in quel modo tutto perfetto ,voce,chitarre,batteria,basso,tutto suonava in modo maestrale. rimasi a bocca aperta.siamo di fronte al capolavoro assoluto del black sinfonico.basta inserire il cd e come prima traccia troviamo mourning palace traccia d'ingresso,e poi man mano tutte le altre tracce,diverse tra loro,ma ognuna con il proprio carisma travolgente,un lavoro completo dall'inizio alla fine.ineguagliabile.

 Voto 10 +

Rexor

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Cradle of Filth tornano  con il loro nono album "Darkly Darkly Venus Aversa".
Ci sono degli schemi musicali che non diventano mai fuorimoda, e le band che adottano questi schemi come base per le loro uscite possono poi crogiolarsi in carriere longeve e di successo, e penso che i Cradle of Filth rientrino in questa schiera visto e considerato che non hanno mai cambiato direzione rispetto a quella intrapresa con Vampire nonostante ovviamente dei cambiamenti, tutt'altro che radicali, si siano fatti notare nel sound prima con "Midian" e poi con "Thornography", (dovuti anche al fatto che la band ha cambiato più di 20 musicisti) rendendone le stesse canzoni più appetibili all'ascoltatore e intaccandone anche l'aspetto della produzione attraverso delle sonorità più nitide. "Godspeed on the Devil's Thunder" segnava invece un riallacciamento col lato più veloce ed aggressivo del gruppo, preparando la strada a quest'ultima fatica che ne è il gemello più bello, per così dire. La cosa che trea immediatamente l'attenzione iniziando l'ascolto è l'assenza di intro e interludi vari sinfonici, ma a parte questo il trademark è sempre lo stesso, solo velocizzato grazie al buon Martin Skaroupka alla batteria.

La tempesta inzia con "The Cult of Venus Aversa" terminando con "Beyond the Eleventh Hour", e diminuisce d'intensità solo con "The Persecution Song" e "Forgive Me Father (I Have Sinned)"; c'è però da annotare che l'impressione è che nessuna di queste possa spiccare nettamente rispetto alle altre, cosicché a lungo andare è possibile essere assaliti dalla nostalgia verso quei passaggi lenti e maestosi, interludi a sorpresa e variazioni nel mood a cui la band aveva abituato il pubblico.
Il primo singolo estratto, “Forgive Me Father (I Haved Sinned)", sembra abbastanza una goth-opera, con un miscuglio dato dalle vocals di Dani Filth (più pulite rispetto ai precedenti lavori) e quelle high-pitched femminili che lo implorano di adorarlo, con chitarre e percussioni più in linea con l'hair metal anni '80. E “Lilith Immaculate” è pressoché la stessa cosa, se non meno "diluita" è più violenta, ma con lo stesso accompagnamento femminile e background da collonna sonora eseguite dalla moglie del produttore Scott Atkins, che devo dire colgono nel segno al pari dei riff.

I quattro pezzi che aprono il disco sono invece come da tradizione composti da percussioni violente, chitarre non pienamente udibili e dalle ginnastiche brutal di Dani a proposito di avvelenamenti, impiccagioni, un pizzico di stupro, altri avvelenamenti e spargimenti di sangue; del resto non posso negare di trovare i concept in qualche modo noiosi. In questo caso parliamo di uno dei loro soggetti preferiti, ovvero la povera Lilith, nonché funesta prima moglie di Adamo, addentrandosi nei meandri storici e nell'abisso torbido e nauseabondo dove Lilith attende la sua vendetta su uomini, donne e tutti coloro che hanno denigrato la sua bellezza di porcellana. I testi va detto sono ben articolati e coloriti, oltre che rabbiosi, merito del William Wordsworth del black metal mainstream, il cui vero nome è Daniel Lloyd Davey. Da "The Persecution Song" in poi si riscontra poi un alleggerimento/dilungamento dove le influenze gotiche trovano spazio nelle composizioni rendendole maggiormente melodiche; solo per un pò, fino a "Deceiving Eyes", un'altra tempesta da affrontare reggendosi forte.

Gli unici difetti che ho riscontrato riguardano i riff in parte stagnanti che nonostante il disco trasudi carnale malevolenza fino ai canini, semplicementi non rimangono impressi. Sulla produzione oggettivamente non c'è nulla da dire per tutte le varie componenti che non risultano mai troppo pompose o eccessivamente patinate. Il giudizio finale spetta poi a ciascun acquirente del disco; a mio avviso si tratta del disco più bello che abbiano realizzato partendo da Midian.

voto 8

 

morpheus