Grind Zero, band Death/Thrash Metal nostrana di origine Milanese, attiva dal 2011 e con un full lenght molto interessante: Mass Distraction (2014). Dal primo ascolto si percepisce immediatamente il tocco Thrash anni ’80 ma più aggressivo con il sempre apprezzato Death Old School, sapientemente miscelati tra loro per ottenere un risultato davvero considerevole, specialmente se a ciò aggiungiamo un growl che sembra voler tirar fuori con forza anche ciò che apparentemente sarebbe impossibile esprimere. Sound sempre al massimo della qualità, chiaro e abbastanza pulito, con atmosfere massicce, violente e, perché no, infernali oserei dire. Il tutto servito su un piatto d’ argento già dalla prima traccia “Blood Soaked Ground” ma anche in “Dislocation” , che irrompono spavalde nel silenzio non per generare rumore - cosa che purtroppo di questi tempi succede spesso - ma per creare sensazioni, emozioni forti con sonorità forti. Da un punto di vista tecnico si nota come ottimi fraseggi chitarristici sembrano seguire molto bene le sezioni ritmiche di basso e batteria con una coordinazione tale da far calzare tutto a pennello, ciò rende i brani decisamente fluidi e mai noiosi. Stessa cosa vale per le altre tracce del full lenght, dove una nota di merito bisogna assegnarla anche al cantante che spesso e volentieri riesce con maestria ad applicare delle variazioni al growl, come ad esempio in “War for War” pezzo di altissima intensità, e in “Mass Distraction” meritevole in egual misura. Inoltre è importante precisare che fino a quest’ultima traccia citata i tempi sembrano essere molto veloci, mentre da “Treacherous Betrayer” fino all’ ultimo brano, “Extra Life Disease” pare si cerchi di dare ancora più spazio alla tecnica e un po’ meno alla velocità, la quale viene espressa solo in particolari momenti della traccia stessa, senza tuttavia sfociare nella banalità o tradire l’atmosfera cupa e caotica dei pezzi precedenti. Che sia stata una scelta voluta? In ogni caso il risultato credo si possa considerare lodevole.  Spesso questo sottogenere viene assoggettato a particolari giudizi, a causa del fatto che, in un epoca dove tutto ormai è stato inventato, purtroppo s’ incappa molto facilmente nella ripetizione o imitazione se vogliamo. Tuttavia non sembra questo il caso. Infine, parere mio personale, trovo assai interessante il “messaggio subliminale” presente nella copertina dell’ album, di forte impatto riflessivo più che visivo.


Tracklist:

1. Blood Soaked Ground

2. Dislocation

3. War for War

4. Mass Distraction

5. Treacherous Betrayer

6. The Black River

7. Modern Slavery

8. Fucked up Nation

9. Extra Life Disease


By Larika Fracca

Voto 80/100


Commenti: 14
  • #14

    maryam laina (martedì, 12 marzo 2024 15:39)

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  • #13

    Giulio (domenica, 07 gennaio 2018 21:46)

    Hahahahahahaha

  • #12

    psychics online (giovedì, 29 dicembre 2016 13:25)

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  • #11

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  • #4

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  • #3

    Marco (venerdì, 30 settembre 2016 09:06)

    80? hahahahaha ma dai...
    Voto 35/100 saggioe giusto... :-)

  • #2

    Giusy (lunedì, 23 maggio 2016 22:31)

    80? Hahahhaha

  • #1

    Stefania (martedì, 23 febbraio 2016 15:27)

    80? Mah!

I Satyricon, band norvegese ormai largamente affermata nel Black Metal per la sua militanza dal 1990 circa, direi che non ha bisogno di molte presentazioni. Tuttavia, credo sia doveroso ricordare il loro immediato successo già agli albori della carriera musicale, con il full lenght Dark Medieval Times (1994), il quale riscosse una notevole importanza nella scena Black Metal norvegese. Da quest’ album, infatti, si palesa il loro marchio di fabbrica: sonorità cupe, oscure, le stesse che poi verranno definite come archetipiche del loro stile, insieme alla voce di Satyr: rabbiosa e inquietante, poco curata e in linea con la forma mentis del genere di appartenenza di quegli anni. Tutto questo fino a Rebel Extravaganza (1998), dove assistiamo a quel che sarà la fine dell’ era “classica”, dando spazio a sperimentazioni da parte della band, per citarne alcune: sonorità moderne ma allo stesso tempo conservatrici dell’ originaria oscurità che pervadeva i testi, lasciando comunque un senso d’ inquietudine e angoscia misantropica all’ascolto, con un cantato più ricercato e definito; semplificazioni che danno vita a lavori come Volcano (2002) poco interessanti e spesso ridondanti; ridefinizione dello stile con maggiore fluidità e omogeneità delle tracce, come in Now, Diabolical (2006).

Questo breve ma intenso excursus ci porta, infine, al reale oggetto di nostra analisi: The Age Of Nero (2008). Da un primo punto di vista, prettamente strutturale, ritroviamo impronte stilistiche dell’ album precedente, ma più aggressive e tendenzialmente più veloci. Refrain lineari, semplici, impostati su tempi medi e sulla ripetizione quasi ossessiva di stessi riff, con atmosfere cupe e interessanti, aggiunte per incattivire il tutto. Insomma un miscuglio di elementi, nozioni, sperimentazioni fatte nel tempo.. Tutte concentrate in un unico album che, al di là del parere soggettivo di tutti noi “musicomani”, unico ed insindacabile, si presta facilmente all’ascolto.

Passiamo ora al focus track. “Commando”, brano di apertura dell album, ci fornisce già un primo scorcio di alcuni elementi distintivi sopra citati: riff molto veloci e violenti per poi tornare allo schema standard, ovvero in refrain piatti e ripetitivi. The “Wolfpack”, invece, ci riporta al solito stile tipicamente monolitico, con arpeggi dark e lo scream ben impostato di Satyr ad accompagnare l’atmosfera ferrea che il sound ci regala. “Black Crow on a Tombstone”, riff azzeccato, ben calibrato ma tediato da un ritornello un po’ troppo rivisitato. “Die By My Hand”, traccia a mio parere più lontana di tutte dallo stile di Now, Diabolical, Frost da finalmente libero sfogo attraverso un drumming degno del suo creatore, con alternanza di passaggi furiosi e atmosfere più lente sapientemente sagomate al refrain. “My Skin is Cold”, brano a mio avviso un tantino insipido, quasi sembra realizzato per lasciarti quell’acquolina in bocca che -ahimè- non si toglierà facilmente. “The Sign Of The Trident”, passaggi ipnotici e interessanti ma ancora prolissi. “Last Man Standing”, riff in pieno stile old-school ripetuti più volte e completata da un groove che persiste in tutte le tracce. “Den Siste”, un ritorno alle vecchie ere dei Satyricon, cantata in norvegese, brano con atmosfere di un’ angoscia a tratti piacevolmente soffocante, accentuata da un sottofondo sinfonico che rende ancor più imponente la canzone stessa.

Come spesso accade, quest’ album ha subito molte critiche dalla sua uscita, fino a creare degli schieramenti d’opinione. Dal canto mio, credo sia al quanto ovvio e scontato dire che i fan dell’ era classica dei Satyricon difficilmente possono approvare questo full lenght, proprio per via delle sue impostazioni moderne e sperimentali. Viceversa, coloro che avevano già precedentemente apprezzato Volcano e Now, Diabolical, non troveranno complicato fare lo stesso con The Age Of Nero, dato che tutti e tre fanno parte della “stessa annata”, per così dire. Certo è che come predetto si lascia ascoltare, nonostante la mancanza di creatività e di spessore, rimangono pur sempre i Satyricon! 

 

Tracklist:

1. Commando

2. The Wolfpack

3. Black Crow on a Tombstone

4. Die By My Hand

5. My Skin Is Cold

6. The Sign of the Trident

7. Last Man Standing

8. Den Siste


By Larika Fracca

Voto: 75/100

 

Commenti: 1
  • #1

    Stefania (martedì, 23 febbraio 2016 15:28)

    55/100 e' giusto.dei satyricon posseggo un solo a mio avviso capolavoro......e mi basta!!! ;)

I reggiani Injury, attivi dal 2008, ci presentano il loro secondo full-lenght, intitolato “Dominhate”: una piccola perla di puro e incontaminato Thrash Metal dall’attitudine e la ferocia ottantiane aperta dal tenebroso, gelido intro a “The Shadow Behind the Cross”, con voce metallica da far venire i brividi. La canzone stessa avanza invece con la caratteristica potenza che ci si potrebbe aspettare da un album di questo genere. La produzione è ottima, precisa, imponente, anche se talvolta la voce di Alle risulta forse troppo in evidenza a livelli di mero volume. Ancora “Drop the Bomb”, seconda traccia del disco, non lascia scampo né respiro, se non in una fugace apertura melodica, azzeccatissima con lo spirito della canzone, prima di gettarci in pasto a “Lost Generation”, canzone dal riffing fortemente ispirato ai Kreator degli ultimi anni, varia e possente com’è giusto che sia. L’intro di “Slaves of our fears”, che segue nella scaletta, è a dir poco spaccaossa, nelle intenzioni e nei fatti: un approccio pesante e ritmico, accompagnato da atmosfere malate delle chitarre di Artio e Paul (rispettivamente alla ritmica e solista), rende questo pezzo, chiuso da un semplice quanto suggestivo arpeggio, tra i più belli dell’album.

Giù di nuovo a mazzate sui denti: “10000 Graves” ci attendono, e la base ritmica di Mibbe (basso) e Gianmarco (batteria) ci fa sentire tutta la sua precisa potenza, e l’energia procede inarrestata, inarrestabile, anche con “Unaware Prisoners”. “Ride the Riot” si presenta invece con un’atmosfera oscura, riff segaossa e una ritmica martellante: pur non essendo veloce come un treno, questa canzone contiene essenza di puro Thrash Metal distillato. La migliore dell’album, da ascoltare assolutamente. Ciò che mancava all’eccellente numero 7 si trova invece in gran quantità nella seguente “Annihilated by Propaganda”: velocità, velocità e ancora velocità, pur non disdegnando cadenzati breakdown verso la fine. Poliedrica e oscura, “Fashion Swine” continua sulla linea oltranzista di pura aggressività temperata da un buon gusto melodico, che del resto caratterizza tutto l’album. Chiude le danze “It’s my Land” con tutta l’energia a cui ormai gli Injury ci hanno abituato, a cui ormai, dopo quasi 50 minuti, ci siamo affezionati.

Ora, come consuetudine, tiriamo le somme. Eccellente la proposta del quintetto reggiano, pur se pesantemente influenzata dai colossi del genere (primi tra tutti, Metallica dei tempi d’oro e Kreator moderni), personale ed energica, sempre di buona qualità e con i due picchi di “Slaves of our fears” (con assolo eccezionale omaggiato alla band da Luca Venturelli, chitarrista dei <<Trick or Treat>> e grande amico della band) e “Ride the Riot”, fatta di composizioni mature nella struttura e nella cura dei suoni e delle atmosfere. 

Alla base di ogni buon disco metal, piovono da ogni cambio di tempo, e le idee, pur se mai troppo fuori dagli schemi del genere, sono sempre buone. Unica pecca è che l’energia, su questa registrazione, va immaginata, più che percepita: la produzione, pur grossa e imponente, manca di quel calore umano che invece, garantisco personalmente dopo aver visto gli Injury dal vivo, in un concerto avvolge e massacra senza pietà gli spettatori.

 

Tracklist:

01 – The shadow behind the cross – 04:39

02 - Drop the bomb – 04:18

03 – Lost generation – 05:08

04 – Slaves of our fears – 06:05

05 – 10000 graves – 04:34

06 – Unaware prisoners – 03:35

07 – Ride the riot – 04:59

08 – Annihilated by propaganda – 03:43

09 – Fashion Swine – 04:46

10 – It’s my land – 05:27

 

 

By Lorenzo Stelitano

Voto 75/100

 

Commenti: 1
  • #1

    Stefania (martedì, 23 febbraio 2016 15:28)

    20/199

L'Apocalisse ormai e' giunta, e ha l'espressione accigliata e la furia sonora dei Distruzione.

La storica band di Parma ritorna dopo un silenzio durato 10 anni e ritorna col botto, questo disco che porta il nome della band (probabilmente per segnare il punto di un nuovo inizio) annuncia la prossima fine del mondo, e noi razza umana ne siamo la principale causa.

Ogni testo (cantato come sempre in italiano) e' un cazzotto in faccia sferrato da Devid, e l'impressione e' che parli proprio a TE ascoltatore, che ce l'abbia proprio con TE, parte in causa della rovina del genere umano.

L'album trabocca di riferimenti letterari, peraltro scritti nel booklet, da Orwell a Dante Alighieri passando per Dostoevskij; il tutto mescolato sapientemente ad un Death Metal tirato, compatto ma assolutamente mai banale o scontato.

Strumentalmente il disco ci offre i Distruzione al loro meglio: le chitarre sono rasoiate precise e letali, le martellate di Dave alla batteria ti scuotono come se stesse suonando di fronte a te e non nello stereo, sostenuto dal basso di Dimitri che sorregge egregiamente la ritmica.

Detto gia' della prestazione “monstre” di Devid, il missaggio della voce non predominante rispetto agli strumenti ci offre dei suoni equilibrati dove si possono apprezzare le capacita' del singolo.

La grande prova di maturita' del quintetto sta nei momenti di respiro, non certo di minor violenza sia chiaro, che quasi in ogni pezzo ci viene regalato prima di rituffarsi nel nero e furioso racconto.

Questi preziosi secondi consentono di aprire squarci di atmosfere opprimenti dove respirare istanti di veleno sonoro prima di tornare all'apnea di ritmi vorticosi e senza tregua.

L'album si presenta come una bestia mutante, a tratti un mastodonte che si muove con passo pesante e minaccioso, oppure come un serpente velenoso che non fai in tempo ad accorgertene e gia' ti ha morso.

Questa mutevolezza contribuisce a creare un clima di costante squilibrio, che mescolato all'inquietante narrazione da' come risultato un contesto di incertezza che disorienta e stimola allo stesso tempo, non sapendo mai cosa puo' accadere da un secondo all'altro.

In conclusione non possiamo far altro che consigliare caldamente questo album, classificandolo senza dubbio come una tra le migliori uscite di metallo italico dell'anno.


Grazie Distruzione per essere tornati, vi aspettavamo !!


Tracklist:

1. Il signore delle mosche 

2. Verità e autorità 

3. Homo mechanicus 

4. La soglia 

5. Oltre la soglia 

6. Nel tuo nome 

7. Stultifera navis 

8. Minotauro 

9. Cornice de' superbi 

10. I tre vivi e i tre morti 

 


By Alle Rabitti

90/100



Commenti: 2
  • #2

    Marco (venerdì, 30 settembre 2016 09:08)

    Stefania concordo e sono con te . Qui se volano 9/10 x quasi tutti i dischi vuol dire che sn persone non credibili e inaffidabili.Io cm te mi affido alle mie orecchie e alla mai conoscenza e esperienza musicale...oltre che ad essere tastierista(musicista)nella mia band....

  • #1

    Stefania (martedì, 23 febbraio 2016 15:29)

    Ma dai ma che sn sti voti ? Vedo sparare x tutto il sito 8 9 e 10 cm caramelle hahhahah ma x piacere!!!

Questo quintetto originario di Pavia stimola la nostra curiosita' a cominciare dal monicker, Aramitama e' infatti il termine scintoista col quale si identifica il lato piu' rude e violento di una divinita', la traduzione migliore che si puo' trovare e' “anima impudente”.

Non e' comunque solo il nome a rendere interessante la proposta che arriva nelle nostre orecchie, il loro e' un metal variegato, non classificabile necessariamente in un genere, ma indubbiamente il richiamo piu' identificabile e' la corrente NWOAHM, con un forte riferimento al Death Metal scuola Goteborg per il gusto che emerge per le parti melodiche alternate con un growl poco profondo e confinato in alcuni sporadici momenti.

I pezzi di questo EP sono comunque ben strutturati, con complicati momenti di shredding, parti cariche di groove, e tiratissimi finali.

Si palesa pero' un tributo forse troppo evidente alle varie band di riferimento del genere, e da questo deriva una sorta di spersonalizzazione del sound.

Gli Aramitama rimangono una buona realta' italica, con musicisti di spessore e pezzi che ti fanno sbattere la testa, ma e' lecito aspettarsi di piu' in termini di evoluzione del suono personale.

A questo proposito l'esempio perfetto e' la chiusura di Forsaken, che ci regala una struggente sequenza di accordi di pianoforte per un piacevole momento di quiete dopo la tempesta. Una sorpresa assolutamente gradita e di grande impatto.


Che partano da qui i cinque ragazzi, da idee che provengano dalle loro teste, che se sono valide (cosa di cui sono convinto) come le loro mani avremo a breve un prodotto di valore che accoglieremo a braccia aperte.


By Alle Rabitti

68/100


Commenti: 0

Immergersi dentro al mondo dei Chaos Plague vuol dire addentrarsi in un labirinto tortuoso, complesso, fatto di trame armoniche cariche di pathos seguite da scariche feroci di rabbia.

Existence Through Annihilation si apre con un'intro, “A Fair Vendetta” fatta di arpeggi acustici e archi che ti trasportano in una realta' onirica per certi versi inquietante.

Non appena le orecchie si adattano al climax di suspence, il quintetto comasco ci getta in un abisso di violenza con Coil, dove il blast violento di Stefano e il ringhio rabbioso di Daniele sospingono le linee di basso di Matteo, poste saggiamente in alto nel mix, le quali seguono armonie spesso indipendenti ma perfettamente incastonate nel contesto.

I pezzi sono strutturati come fossero scene di un film, i vari momenti di ogni pezzo si susseguono con coerenza senza essere pezzi di canzone messi uno dopo l'altro, al contrario sono abilmente intrecciati.

Il modus operandi della band prosegue per tutto l'album, le atmosfere opprimenti sono circondate e arricchite da momenti di pura furia sonora, il growl viene sapientemente sostituito da beffarde voci clean passando da una “scena” (per rimanere nel contesto cinematografico) all'altra

Con i Chaos Plague l'Italia trova il VERO Melodic Death Metal, perche' questa band rappresenta il ponte ideale tra la rabbia furiosa del Death Metal e la melodia ricercata e raffinata, frutto di una tecnica individuale di ognuno dei membri che raramente si sente in un gruppo.

E' davvero difficile indicare una canzone particolarmente significativa dell'album, e non certo per poverta' di opzioni, ma dovendo proprio scegliere allora dico Ubermensch Path, una suite di quasi 10 minuti che racchiude forse il meglio dei CP, l'intro sognante e un po' “Cynicheggiante” , le sapienti linee del basso di Matteo accompagnate da urla, lamenti e momenti riflessivi, il tutto accompagnato da un riffing sempre potente ed efficace e da una batteria variegata e precisa al millisecondo.


Dovremmo essere tutti fieri di avere un prodotto valido come i Chaos Plague nei nostri confini nazionali, e non sarei stupito se un tal signor Masvidal dopo aver dato un ascolto a questo album pensasse : “Pero', direi che questi ragazzi li portiamo in giro con noi !!”



By Alle Rabitti

85/100



Commenti: 1
  • #1

    Jsosn99 (lunedì, 03 ottobre 2016 23:05)

    Si 180 hahahahhaha

Arriva dal Lazio questo quintetto di recente fondazione (2013) che ci lascia un EP che definire thrash potrebbe essere riduttivo.

Indubbiamente gli elementi per definirlo tale non mancano, il drumming fulminante e i riff serrati sono ben presenti, ma di certo l'arma in piu' e'  il (notevole) gusto per i momenti “atmosferici” che si trovano qua e la' in tutto il disco.

Voivod e (primi) Megadeth di certo fanno parte degli ascolti frequenti di questi ragazzi, che si dividono tra assoli velocissimi con grande senso melodico e stop and go d'effetto.

Non mancano preziosismi e “orpelli” vari che li discostano dal thrash veloce, tirato ma alla lunga un po' fine a se' stesso.

Questo porta ad un prodotto di classe e decisamente di livello considerando che si tratta pur sempre di un gruppo emergente al suo primo lavoro.

Intendiamoci, gli Eathrow non sono di certo dei fighetti che si tirano indietro quando si tratta di puntare sull'acceleratore, U-topia ne e' l'esempio perfetto, ma a mio giudizio il loro punto di forza sta  nella ricerca della soluzione melodica e di un gusto personale che andra' senz'altro in crescendo andando avanti con la loro carriera, The Judas Cradle e' la canzone che meglio sintetizza il concetto.

L'unico appunto che si puo' muovere (ma e' proprio per cercare la pagliuzza in un prodotto decisamente valido) e'  la scelta del cantante Valerio di non associarsi ai suoi compagni nella ricerca di differenti soluzioni melodiche, preferendo un cantato piu' ringhiato, lineare e “tradizionale”, che rimane comunque assolutamente di impatto.

 

Che questa sia una scelta fatta o qualcosa da programmare lo scopriremo in futuro, perche' gli Eathrow un futuro ce l'hanno, eccome !!

 

 

Tracklist: 

01 - Old Power Falls 

02 - Scared!
03 - U-topia
04 - The Judas Cradle
05 - Eathrow 

 

By Alle Rabitti

Voto 75/100

Commenti: 1
  • #1

    Hill (lunedì, 03 ottobre 2016 23:05)

    Si 3000 hihihihihi

La prima cosa che emerge dall’ascolto di Sinphobia, omonimo debut album dei deathsters veronesi, è l’estrema qualità del riffing, che sfocia spesso e volentieri in possenti ritmiche dalla struttura granitica e dal sound a dir poco massiccio. Un autentico maglio di monolitica violenza sonora che si abbatte dritto in faccia all’ascoltatore con tutta la veloce potenza di “Guilty of Dawnfall”, che apre un album carico di groove cari ai fan di Pantera e Lamb of God e breakdown dal sound moderno, ma senza tralasciare anche sezioni più atmosferiche, come l’eccellente, marziale intro di “Face your Mirror”, terza traccia dell’album, o più incalzanti, come “March of the Lambs”, chiusura dell’album, che sfodera un discreto blast beat. L’headbanging è un imperativo categorico, reclamato a gran voce dalla cadenzata potenza di Falsi da dietro le pelli, e certamente anche in sede live queste canzoni sapranno catturare l’attenzione dei (purtroppo) sempre più passivi e statuari fan dell’Underground italiano. La potenza, l’integrità e la pesantezza granitica (sostenuta dal basso di Darkoniglio, che emerge chiaro e feroce attraverso l’imponente muro sonoro creato dalla chitarra di Vain) della proposta del quartetto veneto si mantengono a un eccellente livello qualitativo per tutta la durata delle 7 tracce: 35 minuti di costanza (virtù mai troppo elogiata), 35 minuti per dimostrare, ancora una volta se ce ne fosse bisogno, che il Metal italiano non ha nulla da invidiare a nessuno. Esecuzione perfetta, qualità della produzione chirurgica eppure calda e viva,  ferocia nell’interpretazione, specialmente da parte del cantante, Conso, che abbatte tutta la sua perizia di growler senza risparmiare nulla in termini di varietà e potenza, varietà e ripetizioni ossessive giustamente mescolate danno a quest’album la forza per marchiare a fuoco la mente dell’ascoltatore, marchiarla con il nome dei Sinphobia. Un nome da tenere d’occhio.


Tracklist:

1 – Guilty of Dawnfall – 03:14

2 – Thread of Salvation – 05:29

3 – Face your Mirror – 06:40

4 – Prayer to Warcry – 04:06

5 – Respect – 04:49

6 – The Punishing Hand – 05:21

7 – March of the Lambs – 05:27

Durata complessiva: 35:06


By Lorenzo Stelitano

Voto complessivo: 80/100


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Questo giovane combo milanese ci regala il primo full lenght della sua ancor breve storia (l'album è del 2014, l'anno di fondazione il 2011) , preceduto dall'EP “Headshot” targato 2013, e parte con una  “Blood and Guts” che incarna lo spirito thrash anni 80: riffs a rotta di collo, drumming fulminante, e la grintosa voce di Giole che ci porta in un  mondo di conflitti social-religiosi includendo una chicca “Do you pratice what you preach?” che farà drizzare le antenne a tutti coloro che amano un certo gruppo thrash californiano con un gigantesco frontman nativo americano …

L'album sostanzialmente si divide in questi 2 tronconi : da un lato la conflittualità umana su piccola o vasta scala, Murdered by the Beast e Toxic War -altro richiamo old school-, e lo spirito caciarone del thrash più festaiolo, Moshing Maniax e Welcome to the Thrash Party, che tanto deve ai quegli ex brufolosi adolescenti di nome Metallica epoca Kill'em All.

La vera gemma di questo album, almeno per chi scrive, è “2977”.

Questa breve traccia strumentale di straordinaria delicatezza lascia un attimo di respiro prima di re-immergersi nel caos apocalittico dell'album con “Rebels Die Hard” che vede la partecipazione di GL Perotti dei concittadini Extrema.

L'album in generale è costruito bene, dividendosi come dicevo in momenti più o meno seri e richiamando durante tutta la sua durata i classici stilemi del genere : cori, stop e ripartenze e tutto quanto riuscite ad immaginare in merito.

E questa è la grande forza che permea tutto l'album, ma anche a mio giudizo una base di partenza per prendere altri lidi creativi. Tutti i 4 membri sono grandi appassionati del genere e si sente, ma la speranza è che “Into the Slaughter” sia solo un trampolino verso sicuri orizzonti che brillino del loro talento senza rimanere troppo ancorati a ciò che fu.

La prestazione di tutti quanti è decisamente sopra la media : Danilo alla batteria è una macchina che non perdona, la ritmica di Gioele è serrata e la voce cattiva il giusto, Luca al basso martella con precisione ma sfortunatamente udibile in pochi episodi (come l'apprezzabile intro di Feast of Blood), Simone alla solista, laddove libero di lasciarsi andare, è un funambolo; sconsiglio a tutti coloro che imbracciano una chitarra di ascoltare il disco e andare a vedere quanti anni ha, smettereste immediatamente di suonare.


La strada è tracciata per i Blindeath, una volta che percorreranno con fiducia il loro sentiero l'avvenire sarà assicurato.



Tracklist:

1. Blood And Guts

2. Murdered By The Beast

3. Toxic War !

4. Moshing Maniax

5. Arcadia

6. 2977

7. Rebels Die Hard (Feat. GL Perotti)

8. Welcome To The Thrash Party

9. Feast OF Blood


By Alle Rabitti

Voto: 70/100



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In giro a calcare palchi ormai dal 2005, i torinesi Manhunt hanno alle spalle ormai due Demo (“Fake” nel 2008, e “Experimental Human Cruelty” due anni dopo), un singolo (“Priestholocaust”, rilasciato solo digitalmente nel 2009) e un Full-Lenght, appunto intitolato “Manhunt” datato 2014 e uscito per la Crime Records: 8 tracce puro Thrash Met… no, aspettate: lo stile dei Manhunt è tutt’altro che “puro”. Si tratta infatti di una sapiente contaminazione tra Thrash e Black Metal, con influenze che spaziano ancora più ampie all’Heavy ottantiano e a sfumature di Death Metal vecchia scuola. Conclude la presentazione del gruppo l’esperienza del recensore stesso, che ha avuto modo di “subire” sulla propria pelle più d’una volta la piacevolissima furia devastante dei Manhunt in sede Live…

Apre il disco la  crudele “Satana”, senza dubbio uno dei pezzi migliori dell’album, forte di un ritornello assolutamente conquistatore, con le voci di Davide Quinto (cantante principale, anche membro de Gli Alberi) e Alessandro Massa (basso e seconde voci, Malakhor) che si intrecciano in un testo ibrido di italiano e inglese, cambi di tempo atmosferici e ottimi assoli marchiati Massimo Ventura (Hateworld) e Alessandro Gagliardi, coppia affiatatissima che dimostra tecnica e buon gusto… il tutto supportato dalla macchina infernale rappresentata da Lorenzo Somma: versatile e feroce, vario e preciso nel suo ruolo di batterista.

Altre punte di diamante dell’album, per quanto sia pressoché impossibile trovare una canzone da definire “brutta”, sono senza dubbio “Gates of Hell” e “Vendetta”, vere e proprie bestie da palcoscenico, ma anche “Magdeburg” e “Drones”, con le loro atmosfere spinte verso le fredde lande del Black Metal, a tratti decisamente struggenti. Ognuna delle otto tracce che compone questo disco, comunque, ha un’anima propria, eppure si ricollega allo stesso stile, alla stessa matrice, dando all’opera nel complesso omogeneità e varietà allo stesso tempo, permettendo di scorrere per tutta la sua durata, una quarantina di minuti, senza mai pesare sull’ascoltatore.

A livello di produzione, la qualità è curioso il connubio tra l’estrema pulizia dei suoni di batteria e quelli, più “grezzi” delle chitarre e del basso, che “invecchia” a livello di sound il disco, ma al contempo gli conferisce grande precisione e potenza. Complessivamente, un ottimo album: ben eseguito e ben interpretato, vario ma equilibrato e compatto, e di certo non il “solito” album Thrash Metal, dato che esplora una via se non nuova perlomeno poco battuta, quella appunto del Thrash/Black. Consigliato, assolutamente.


Tracklist:

01 – Satana 04:39

02 – Blast the Sun Away 04:50

03 – Blast the Sun Away 04:48

04 – Gates of Hell 05:23

05 – Magdeburg 04:48

06 – Drones 04:43

07 – Priestholocaust 04:03

08 – Vendetta (+ghost track) 06 :24

Durata complessiva: 39:38


By Lorenzo Stelitano

Voto: 85/100


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Elaborato, estremo, gotico e carico di adrenalina. Quali migliori termini se non questi citati per descrivere il nuovissimo album dei Graveworm: Ascending Hate.

Full lenght suddiviso in due parti: da un lato ci sono i Graveworm aggressivi, death a livelli di panico, martellanti, rabbiosi e chi più ne ha più ne metta. L'ugola di Stefan Fiori è più carica e marcata che mai. Inutile sottolineare la sua bravura e i suoi urli growl che ti fanno impazzire.

Dall'altro lato abbiamo una piccola sorpresa: il ritorno a quell'emozionante sound gothic che ci riconduce quasi alle origini. Una mistura, in parole povere, tra Fragments of death ed Engraved in black. Io personalmente, dopo averlo ascoltato, mi sento di poter affermare che questo è il risultato della fusione dei due album citati. 

Molto ben fatto oserei dire, carico di tecnica. Nonostante si sia rinnovata la formazione, con la fuoriuscita di Sabine Mair (tastierista), e l'entrata di Steve, chitarrista dagli esordi sino ad Engraved in black, devo ammettere che il risultato è sbalorditivo.

Parliamo del batterista Martin? Non ho parole per esprimere la precisione e la tecnica adoperata in Ascending. La bravura è sempre stata presente in lui ma stavolta ha davvero superato se stesso. Basti ascoltare Blood/Torture/death per rendersi conto di cosa parliamo. 

I Graveworm confermano ciò che hanno composto in venti anni di onorata carriera. Confermano quel loro sound gothic-death che ci ha accompagnato per anni. Nonostante la formazione si riduce a 5 componenti, nonostante ci sia stato un rinnovo di squadra, è valsa la pena attendere 4 anni per avere di nuovo tra noi un formidabile album firmato Graveworm. Gli altoatesini sono riusciti con molto gusto ed astuzia, a fondere davvero in modo molto amalgamato il suono di ogni singolo strumento. Tracce ben connesse tra loro come se formassero un puzzle dal quale non si può togliere un piccolo pezzo altrimenti non forma più l'esatta immagine. Cos'altro aggiungere, consiglio vivamente vecchi e nuovi fan di acquistarlo perchè vi troverete tra le mani l'ennesima perla metal della quale poi non riuscirete a staccare l'udito. Complimenti ai nostri per aver fatto si che noi Gravewormiani non restassimo delusi dal loro nuovo album, anzi, io personalmente sono rimasto molto soddisfatto e non trovo alcun punto debole.

 

TWOLFF  

Voto 8.5

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Controsigillo. Una band tutta italiana di cui abbiamo avuto già modo di parlare e di cui ci siamo avvalsi del piacere di intervistare tempo fa. Infatti qualche tempo addietro il cantante Enrico Pulze ed il bassista Giorgio Piga ci hanno rilasciato una intervista che potete andare a leggere nell'apposita pagina del blog.

Dopo un ottimo debutto, siamo qui per parlare del loro ultimo lavoro: un vinile composto da 2 tracce.

Intanto mi sento di precisare che qua parliamo di persone che compongono un trash con sfumature anni '80 arricchito da un sound progressive molto ben amalgamato. Gia' con l'uscita del debut hanno dimostrato di essere bravi musicisti e soprattutto pignoli nel curare dettagliatamente i loro brani facendo si che la loro tecnica non passi inosservata.

Ora torniamo al vinile. C'è da premettere che si tratta di un limited edition di soli cento copie numerati.  

Per quanto riguarda Baghdad, mi ha colpito già al primo ascolto. Comincia con un tono alquanto aggressivo con chitarre graffianti. Da notare che il cantato di Pulze stavolta è in lingua italiana. Verso metà canzone possiamo assaporare un gran bell' assolo di chitarre e sfuriate di batteria, per poi placarsi e lasciare ancora spazio alle chitarre graffianti. Di nuovo Pulze con la sua voce pulita e squillante per poi dare la conclusione con un ennesimo assolo. Molto raggiante come traccia, ti trasmette una energia carica di potenza.

Lupin 3 - Memorie di zazà. Qua siamo di fronte ad una semi-ballad. Inizio di acustica e voce, accompagna la batteria con suono lieve e delicato. 

Un suono nel complesso molto soft, con passaggi ed assoli di acustica veramente emozionanti, ti rendono molto piacevole l'ascolto. Anche qua di tecnica e bravura c'è nè davvero in modo notevole.

Il tutto è ricoperto di  testi che ti trasportano in quel mondo affascinante della fantasia, rendendoti spettatore unico. Davvero complimenti per le emozioni che ci regalate e continuate a trasformare in musica le vostre passioni e sensazioni perchè solo facendo questo ci si può  definire artisti e voi state dimostrando di esserlo. 


By TWolff



Per cominciare dobbiamo ammettere che questa volta i Moonspell hanno davvero sbalordito in tutto e per tutto. Questo undicesimo lavoro, diciamocelo, ha una marcia in più rispetto i precedenti. Che la band capitanata da Ribeiro abbia sempre voluto sperimentare musicalità diverse in ogni loro lavoro questo già lo si sapeva e lo si è appurato col passare del tempo. E c'è anche da ammettere che, nonostante quella di sperimentare sia sempre una scelta rischiosa, i nostri lo hanno fatto sempre con tatto e intelligenza, senza mai sbagliare un colpo. 

Ogni album dei Moonspell ha il suo fascino e, quale più quale meno, tutti meritano appieno un giudizio positivo in quanto gradevoli da ascoltare. E proprio per questo apprezzo molto questa band, perchè non cedono mai alla ripetitività e non si accontentano di avere un proprio punto fisso e stabile in campo musicale. Questo è molto da apprezzare oggi come oggi perchè sono veramente poche le band che si mettono in gioco ad ogni loro nuovo lavoro cercando di creare un qualcosa di diverso mantenendo tutto sommato i propri canoni d'esordio. 

Ed ecco quindi che nasce Extinct, lavoro davvero ben fatto nel vero senso della parola. Questo è un album che ti carica di emozioni e adrenalina dalla prima all'ultima nota. Decisione molto saggia da parte di Ribeiro di utilizzare quasi in toto il clean piuttosto che il growl. E' uno dei pochi cantanti che posseggono una ugola particolare e che ti cattura col suo fascino. Fernando ha davvero una voce molto toccante e assolutamente adatta al gothic. Poi vorrei permettermi di precisare che in questo album è di una scioltezza e naturalezza molto toccante, canta in un modo così soave e naturale che ti invita a canticchiare appresso a lui. A tratti viene usato anche il growl ma questo lo si usa quando davvero necessita.. Particolare anche le doti da parte di Ribeiro di sapere usare entrambe le vocalità. 

Non sono certo da meno i restanti componenti, l'uso delle tastiere è davvero ben fatto, con inserti sinfonici, orchestrali molto ben strutturati. Basti assaporare la opener track Breathe per farci una idea della grandezza, della maestosità di cui ci rendono partecipe.  Una sintonia davvero invidiabile da parte di musicisti di questo calibro che ci ammaliano di tanto in tanto con assoli molto avvincenti. Parliamo comunque di una band che è nata da alcuni decenni e che ha sempre saputo tenere alto il nome e il gothic.Canzoni come Breath, The last of us, Domina, la stessa Extinct, molto avvincente e cosi' come tutte le altre, non hanno bisogno di parole per essere capite e apprezzate, ma hanno bisogno solo di due orecchie e un buon udito per assaporarle e farsi trascinare in quel vortice di emozioni che ti sollevano, ti rattristano, ti caricano di adrenalina e poi ti abbandonano nel bel mezzo di un viaggio di puro godimento.

Sinceramente, poi è ovvio che la soggettività predomina su tutto, non riesco a trovare un punto debole in questo album, tutto è così bello e al punto giusto che non si può non apprezzare questa ultima uscita di questa magnifica band. Complimenti Ribeiro e Co. Cento di questi album!

By TWOLFF.

Voto 9

11-03-2015

 

Bella recensione , penso rimarra' uno dei migliori album del 2015.

Dany75.

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Meglio essere subito chiari: gli unici Napalm Death che davvero contano, gli unici che saranno ricordati negli annali delle musiche estreme (e non solo) sono quelli dei seguenti dischi: “Scum” e “From Enslavement To Obliteration”, "Inside the torn apart" ed "Enemy of the music business". Tutto il resto è solo minestra riscaldata. Che c'è da fare anche attenzione alle volte a come si riscaldano. Può capitare, come l'album in questione, che troppo riscaldate bruciano e non sanno di niente. Un soffritto di mazzacorde andato a male.

 Da tempo, infatti, Shane Embury e soci sono sostanzialmente interessati a non scontentare i loro affezionati seguaci, senza dare scossoni veramente significativi in fatto di creatività. Così, nel solco del precedente “Utilitarian”, “Apex Predator – Easy Meat”, dopo aver aperto il sipario con un oscuro rituale memore dei Killing Joke, esplode nelle orecchie con la violentissima deflagrazione grind di “Smash a Single Digit”, cadenzando, quindi, un poderoso hardcore (“Metaphorically Screw You”) e spingendo sul groove con una “How the Years Condemn” che non manca di fare leva su dissonanze e piglio barricadero.

 

Con il solito Russ Russell in cabina di regia, il disco è imperniato su una produzione priva di sbavature, per cui ecco il solito suono perfetto (troppo) capace di far risaltare ogni singolo brandello di brutalità (e questo chiunque può riuscirci), dai tracciati spigolosi di “Timeless Flogging” ai picchi nevrastenici di “Cesspits” e “Beyond The Pale”, dalle sfuriate più scopertamente grind di “Stunt Your Growth” alle tonalità solenni di “Hierarchies” e “Adversarial/Copulating Snakes”, passando per una “Dear Slum Landlord” che fa rifiatare un attimo, pur se con torride movenze Godflesh. Ma è una brutalità che, per chi è abituato a masticare roba estrema, senza fermarsi alla superficie e alle apparenze, finisce per risultare stucchevole, stancante tanto che mi sento di prendere per buone le parole del cantante Mark "Barney" Greenway: “Alcuni dei suoni che usiamo sono deliberatamente 'progettati' per infastidire la gente, non c'è dubbio”. Ecco: un certo fastidio...by ondarock

Basti guardare la copertina già per rendersi conto che lo si può acquistare in una qualsiasi "kianka" magari ricevendolo in omaggio dopo avere speso 10 euro in trippa da pulire. Infatti sembra una confezione di schifezze frattaglie o quello che sia. In conclusione possiamo dire che è brutale anzi, bruttale, di sicuro. In ogni caso, un vano tentativo da parte di musicisti affermati che dovrebbero cercare di sorprendere piuttosto che cercare di sfornare musica per il solo scopo di arrotondare il mensile.

BY Horrorscape

Voto  4 per il nome che portano.

 

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Chi ascolta, o semplicemente conosce, gli Iron Maiden, non può assolutamente estraniare questo album dalla categoria degli intramontabili. Pubblicato nel lontano maggio 83, "Piece of mind" resta tutto oggi una pietra miliare del metal in generale, nonché uno fra i dischi più belli dell'intera discografia maideniana. La band di Steve Harris subisce nel periodo precedente l'uscita del disco, come da "tradizione", l'ennesima variazione della line-up. A farne le spese questa volta è il batterista Clive Burr, allontanato per il frequente e pesante uso di droghe alquanto dannose, sia per la sua salute e sia per la carriera della band.
Il suo successore risponde al nome di Michael Henry McBrain, meglio conosciuto come "Nicko" (in onore al suo orsetto di peluche preferito) McBrain. L'eccentrico drummer portò alla band un senso ritmico più quadrato e solido, oltre ad una versatilità maggiore rispetto al suo predecessore. L'arrivo del batterista, assieme ad un cantato da parte di Dickinson tra i più belli mai sentiti e l'ingente numero di riff originali e ingegnosi inventati dall'accoppiata Murray - Smith, sono i veri e propri assi nella manica sferrati da un Eddie un po' troppo "folle".
"Piece of Mind" vede la continuazione progressiva dei piccoli cambiamenti apportati rispetto ai primi e più veloci album. Nel quarto disco ufficiale del gruppo inglese la velocità non manca di certo, ma si nota un favoreggiamento verso una sonorità più heavy in confronto alla precedente più speed. I contenuti altamente epici e eroici arricchiscono questo capolavoro, contenitore di pezzi storici degli Iron Maiden. La patriota ?The Trooper? che cavalca attraverso pianure ove si svolgono sanguinose battaglie; la mitologica Flight of Icarus; la shakespeariana Where Eagles dare o la resistente Die with your boots on, senza dimenticare le altre stupende canzoni. Un'altra leggendaria pagina della storia del heavy metal scritta dalle Vergini di Ferro.
Voto 9
Dany75

I Death Angel sono stati in assoluto il gruppo più sottovalutato della scena Thrash americana degli anni '80. Forse il loro debutto “The Ultra-Violence” non ha ricevuto la giusta attenzione per il fatto di essere uscito nello stesso anno di immortali capolavori come “Master of Puppets” e “Reign in Blood” (c'è bisogno che vi dica di chi sono?), ma merita comunque di essere riscoperto.
Il gruppo, formato da Andy Galeon alla batteria, Gus Pepa alla chitarra, Mark Osegueda alla voce, Rob Cavestany alla chitarra solista e da Dennis Pepa al basso, nel 1986 è giovanissimo, l'età media dei componenti nn supera i 20 anni (Andy Galeon aveva addirittura 14 anni!), ma il tasso tecnico dei Death Angel è strabiliante.
Il loro lavoro d'esordio è un disco di puro Thrash Metal made in USA, ma i nostri hanno dalla loro un originalità che nessun gruppo del genere è mai riuscito ad eguagliare e ancora oggi, a distanza di 12 anni, “The Ultra –Violence” stupisce per il senso di “attualità” che riesce a comunicare.
Il platter viene aperto da “Thrasher”, che già dal titolo lascia intuire quelle che sono le coordinate sonore del quintetto, una musica violenta e potente. I cambi di tempo sono impressionanti e il lavoro dei musicisti eccellente, soprattutto quello di Cavestany alla solista, sempre preciso, tecnico e, soprattutto, di un buon gusto rimarchevole.
“Evil Priest” assale l'ascoltatore con dei riff violenti ed estremamente tecnici, trasportandolo in una dimensione musicale allo stesso tempo familiare e sconosciuta. I Death Angel stupiscono grazie a delle soluzioni musicali nuove, senza però perdere mai di vista la loro matrice classicamente Thrash. Ottima la voce di Mark Osegueda, che riesce ad essere aggressiva e molto calda, regalando ogni tanto qualche buonissimo acuto.
La seguente “Voracious Souls” è un altro piccolo capolavoro in pieno stile Death Angel, tecnica eccellente ed aggressività sempre presenti. Anche qui il lavoro della chitarra di Cavestany è impressionante!
Arriva poi “Kill as One” che chiude il lato “A” del vinile in modo egregio.
L'apertura del lato “B” è affidata alla title track, spettacolare canzone strumentale di oltre 10 minuti che riassume in pieno le influenze della band, che vanno dagli Iron Maiden ai Metallica fino agli Slayer, il tutto riletto con una personalità ed una maturità artistica impensabile per dei ragazzi così giovani.
Non penso di sbagliare dicendo che “The Ultra-Violence” è tutt'oggi uno dei pezzi Thrash più originali mai scritti. Lo stile della Bay Area viene sviscerato e riscritto in un modo che non si era mai sentito, e che nessuno riuscirà mai ad avvicinare. 
Le successive “Mistress of Pain” e “Final Death” ribadiscono ancora una volta gli elevati standard qualitativi del disco. I Death angel riescono nel difficile compito di aggredire l'ascoltatore in maniera “intelligente”, senza mai sfruttare la velocità fine a se stessa, ma con un uso dei riff e delle melodie veramente eccezionale..
La chiusura è affidata ad “I.P.F.S” altro pezzo strumentale (eccezion fatta per la parte parlata finale), questa volta molto corto, dove i nostri spaziano da un inizio di chitarre acustiche a partiture quasi Grind, quasi avoler dimostrare la loro duttilità in fase compositiva.
I suoni del disco sono ottimi, considerato l'anno d'uscita, grazie all'ottima produzione degli stessi Death angel e di Davy Vain, cantante piuttosto famoso all'epoca con il suo gruppo Glam, i Vain appunto.
Io consiglio agli amanti di certe sonorità di ascoltare attentamente questo piccolo capolavoro, in esso troveranno sicuramente tanta potenza ma anche un certo sapore di novità; Kirk Hammett era un grande estimatore del gruppo, e a quei tempi Kirk di Thrash ne capiva parecchio!


By TWOLFF

Voto 9


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Gli Aerosmith sono uno dei pochi gruppi rock (l'unico?) ad aver resistito alla prova più difficile per una band: quella del tempo. Anzi, forse hanno fatto qualcosa di più: sono riusciti a tirare fuori alcuni dei loro capitoli migliori nella parte finale della loro carriera, dopo gli ottimi album d'esordio. Probabilmente la crisi che ha attanagliato i componenti in tutti gli Ottanta ha fatto sì che il meglio venisse appunto dopo, tutto d'un botto, come se fosse rimasto ingabbiato per troppo tempo; e l'album in questione rappresenta allora l'uscita dal tunnel.

Tra il dicembre 1991 ed il gennaio 1993 gli Aerosmith entrano quindi in sala di registrazione con un solo, preciso, obiettivo: recuperare i fasti passati, e con essi i fan che da tempo aspettano un lavoro all'altezza. Bé, proviamo a metterci nei panni di chi, nel 1993, appena comprato il vinile o la cassetta, lo mette impazientemente sul giradischi o nella radio: pochi secondi e parte l'Intro, un pò spiazzante a dire la verità. Che i Run DMC abbiano portato - per così dire - un'influenza... troppo incisiva? Ecco che repente arriva la smentita: l'Hard Rock puro di Eat The Rich, il miglior pezzo del disco, riprende l'intro, il riff di Walk This Way e per il resto si concede ad un'inaudita esplosione di energia, evidenziata peraltro dalla batteria di Kramer. Get a Grip contiene la migliore prestazione vocale dell'intero lp, mentre in Livin' on The Edge Tom Hamilton sfodera un ottimo assolo di basso. Forse il trio di ballatone Cryin'Crazy eAmazing stonano leggermente all'interno del contesto definitivo, ma servono solamente a ribadire - per chi se ne fosse dimenticato - che gli Aerosmith, oltre ad essere quelli di Walk This Way e Eat The Rich, sono pure quelli di Dream On(tanto per fare un esempio).

Siamo appena entrati negli anni '90, Mtv spopola, ed anche grazie al video di Crazy ed al relativo successo commerciale del disco il gruppo si aggiudica ben 7 dischi di platino. Gli Aerosmith erano tornati, e se volessimo fare un paragone con i loro "mentori" Stones, che nello stesso anno firmano Steel Wheels, bé, direi che non c'è proprio partita. O no? voto 7,5

Dany75

DALLA SERIE: CE N'ERA PROPRIO BISOGNO?

Mi trovo quasi in imbarazzo a dire con un numero il voto di questo disco. Di sicuro se leggiamo chi lo ha prodotto si dovrebbe urlare giustamente alla bestemmia contro dio Odino. Se poi pensiamo che esistono persone che credono che gli In Flames siano morti già con “The Jester Race” allora marchiamo malissimo. Allora dico voto 0, due schiaffi e richiamate per favore Jesper.

Chi invece è in grado di andare oltre e saper apprezzare la musica senza dover andare dietro a nomi, etichette o moda possiamo dire che questo album è il punto di svolta. Quello in cui i Nostri hanno trovato il loro ambiente tipo dando alle stampe un disco non eccelso ma sicuramente di buona fattura.

Siren Charms non scrive la storia nel rock contemporaneo, e non è nemmeno indispensabile nella discografia degliIn Flames, forse avrebbero dovuto cambiare nome e proseguire con un altro monicker.

Ma per chi si avvicina solo ora, o per chi vuole ascoltarsi un bel CD da tenere compagnia in auto allora è quello che fa per voi.

Forse una lacrima scende a ripensare a certe uscite discografiche, ai tempi che furono e ai membri che non ci sono più. Ma il passato è storia e quella non si cambia, nessuno toglie gli In Flames come imperatori indiscussi degli anni 90 nel metal estremo. Oggi sono una band alternative che non ha niente da invidiare a nessuno.

Ma per uno come me non basta, rimetto quindi il CD nella custodia e torno a piangere inserendo nel mio impianto a tutto volume Clayman. Aaaah si…Only for the Weak…

TWolff: concordo pienamente socio. a volte bisogna recensire anche i flop-disc

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Personalità. Un concetto tanto caro agli Amorphis, un modo di porsi al cospetto della musica fiero e deciso, talvolta pericoloso ma assolutamente irrinunciabile.

Qualcuno sa con esattezza cosa suona questa band? Da Tales From the Thousand Lakes a Tuonela, da Elegy a Far From the Sun i finlandesi si sono divertiti a giocare con death, doom, folk, gothic, rock, progressive e persino un pizzico di psichedelia settantina, riuscendo a plasmare un sound camaleontico e cangiante, mai uguale a se stesso ma soprattutto mai uguale agli altri, eppure sempre fortemente intriso di quella classe e quel carattere che sono ad appannaggio soltanto dei grandi.

Tuttavia, da un paio di album a questa parte, il suono della band di Esa Holopainen si è cristallizzato su uno stile apparentemente semplice e lineare che, guidato da grandi melodie e atmosfere malinconiche e crepuscolari, coniuga la potenza del metal alle suggestioni folkloristiche del Kalevala (poema epico nazionale finlandese) in un gioco di virtuosismi e arrangiamenti curatissimi: è stato così per il precedente Eclipse ed è così anche per il nuovo Silent Waters. Merito (o colpa) del nuovo cantante Tomi Joutsen? Chi può dirlo, quel che è certo è che potendo attingere da un bacino creativo illimitato gli Amorphis sono riusciti anche questa volta a produrre un disco di caratura superiore, che trae la sua forza da un songwrtiting ispiratissimo e sapientemente dosato tra l'energia e l'irruenza delle chitarre e della sezione ritmica e una sensibilità e una cura delle melodie e dei particolari che pochi possono vantare. Da una parte le scariche adrenaliniche di Weaving the Incantation, A Servant, Towards and Against, dall'altra le emozioni e le atmosfere ora sontuose ora dimesse di piccole perle di melodia come l'incantevole e struggente Her Alone, la bellissima titletrack (esempio di come non sempre commercialità faccia rima con banalità) o l'acustica e medievaleggiante Enigma. Nel mezzo due veri e propri pezzi da novanta che rispondono al nome di I of Crimson Blood e Shaman, capaci di fondere in un irresistibile tutt'uno tutte le caratteristiche e le sfaccettature di un sound così completo e affascinante. Ad incarnare le molteplici anime della band troviamo la voce di Tomi Joutsen, capace di passare dalla tormenta del growl rabbioso ed abrasivo alla quiete di linee vocali dolci e delicate che fanno il paio con una dose abbondante (ma mai invadente) di accompagnamenti di pianoforte e chitarre acustiche.

 

Tuttavia la sintesi perfetta delle caratteristiche di questo disco è da affidare alle immagini più che alle parole, e nessuna illustrazione può rappresentare Silent Waters meglio dell' artwork di copertina curato da Travis Smith (disegnatore anche per Opeth e Katatonia tra gli altri): un solitario, elegante e splendido cigno rosso che solca le desolate acque del fiume della morte in un'atmosfera spettrale e dominata da tinte cupe e senza speranza. Ai buoni intenditori non serviranno ulteriori parole, per tutti gli altri ne basterà solo una: chapeau.

 

87/100

TWolff 03-10-2014

Commenti: 2 (Discussione conclusa)
  • #2

    farewell (lunedì, 20 ottobre 2014 16:29)

    veramente suonato con maestria , gran bel disco che come ben sappiamo appartiene alla ben nota trilogia

  • #1

    xena (domenica, 19 ottobre 2014 21:39)

    grande discone

E’ proprio il caso di sottolinearlo… alle volte gli allievi superano i maestri. Nel nostro caso parliamo degli statunitensi Caladan Brood che, con il loro primo album “Echoes Of Battle”, riescono nell’impresa di convincere tanto quanto la loro fonte di ispirazione primaria (come da loro stesso dichiarati nella bio di presentazione), ossia gli austriaci Summoning.

Il sound del duo americano incarna in pieno l’epic black sinfonico con testi rigorosamente fantasy che ha fatto conoscere in tutto il mondo gli album di Silenius e Protector.

Nel nostro caso “Echoes Of Battle” ripercorre le strade solcate dai maestri ma aggiunge una forte personalità che emerge in tutti i sei brani della release, un livello tecnico-compositivo già estremamente maturo ed una fantasia espressiva che nessuno avrebbe sospettato.

Per passare a descrivere nei particolari il CD cominciamo con il dire che i Caladan Brood hanno una fonte di ispirazione diversa, per quanto riguarda i testi, rispetto a quella dei Summoning. Al posto del super citato Tolkien i nostri infatti pescano a piene mani nella lunghissima saga denominata “La caduta di Malazan” (un’errata traduzione dell’originale “Malazan Book of the Fallen”) e scritta dal canadese Steve Erikson. Questa lunghissima serie ha un taglio decisamente complesso ed adulto; il monicker Caladan Brood è nel mondo di Erikson il personaggio del condottiero che contrasta l’impero Malazan.

Sempre rimanendo in un confronto-raffronto con quanto realizzato dai Summoning, possiamo affermare che ritroviamo le ariose armonie che in parte già conosciamo, le strutture lunghe e complesse dei brani ed un sound che per essere gustato pienamente dev’essere ascoltato con attenzione e concentrazione.

I Caladan Brood si distaccano dai Summoning per un uso più evidente di cori melodici ed immediati, così come per una maggior frequenza di passaggi più naturali ed uno screaming black più intenso che si alterna ad una voce profonda e pulita (ad esempio nella bellissima “Echoes Of Battle”) che rende comunque accessibile e godibile l’assimilazione di song che una volta fatte vostre non vi abbandoneranno più.

Tutte le sei song del CD sono su livelli più che ottimali ma citiamo comunque ancora la melodia evocativa di “Wild Autumn Wind” e l’afflato epic della potente e cadenzata “A Voice Born Of Stone And Dust”.

Aggiungiamo inoltre che l’opera si presenta sia in normale jewel box che in un’edizione lussuosa in libretto A5 (in cui comunque non compaiono bonus track) di sole 1000 copie.

L’artwork di entrambe le versioni è opera del pittore ottocentesco statunitense Albert Bierstadt (vedi “Galaico’s Sign dei Lughum) che dipinse i paesaggi del west americano.

I due musicisti, Mortal Sword e Shield Anvil, hanno registrato l’album ai Genabackis Studio mentre il mixing e il mastering sono stati curati da Ryan Hunter presso gli Ulfrin Svartr Studio.

Se amate il sound di Summoning, Elffor, Vordven, Rivendell o Wongraven dovete assolutamente far vostro questo eccezionale debutto.

BY TWOLFF 14-09-2014

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l'ex DOA, Black Flag e Fear Chuck Biscuits alla batteria.  Il corvino del New Jersey alza il tiro, aumentando ancor di più l'aura malefica intorno alla sua figura fondendo vari stereotipi della storia del rock. 

 

L'album  in  questione è il loro secondo lavoro, e segue di due anni il disco d'esordio "DANZIG" del 1988. Chi scrive ritiene che i due dischi si equivalgano a tutti gli effetti, anche se "LUCIFUGE"  annovera ballate come Devil's plaything e Blood and tears, nonchè il blues vecchia maniera di I'm the one che lo rendono ancor più prezioso.

 

Si comincia  in modo fulminante con Long way back from hell. Da subito l'aria è accesa da un riff hard al fulmicotone che in men che non si dica è accelerato da una furia punk. Sembra l'inizio di una track dei Judas Priest, ma basterebbe solo la memorabile entrata di Glenn Danzig a mettere i brividi ad Halford & Co. Un hard-rockabilly trascinante che apre degnamente un album capolavoro. Segue Snake of Christ, e il ritmo si abbassa mentre la ugola si fa più oscura. Molto più pesante e ossessiva rispetto alla precedente, fa uscire allo scoperto l'anima metal del gruppo. Killer wolf è la  prima avvisaglia blues. Si inizia a respirare il Delta e la vocazione di Glenn a vestire i panni mojo (come farà  anche nella classica I'm the the one, addetrandosi in paludi fangose alla Muddy Waters mentre riecheggia il Boom Boom di Hooker). Chi più ne ha più ne metta, qui si sprecano i rimandi all'hard blues granitico del decennio antecedente (ZZ Top,  MC5, Mountain e via dicendo).

 

In Tired to being alive, Girl e Her black wings Christ ci riporta alla memoria i poderosi riff di chitarra dei vecchi Page e Yommi, mentre un'ombra sciamanica si ammanta su Devil's plaything e Blood and tears, omaggi più che evidenti ai Doors. Glenn si cimenta nella voce baritonale che ricorda il Morrison di Blue sunday, Summer's almost gone e Riders on the storm, per poi esplodere come solo lui sa fare, marcando una netta differenza vocale rispetto al Re Lucertola. Due brani indimenticabili, catartici e commoventi.

 

777 è uno slide blues capace di  trascinare un convoglio merci per tutto il deserto del Nevada. Con una chitarra da fibrillazioni sembra di assistere ad un assalto al treno tipico del cinema western o di risentire le leggendarie musiche dei film di John Carpenter di Grosso guaio a Chinatown ed Essi vivono. Il disco si chiude con Pain in the world, e siamo di nuovo ai Sabbath, stavolta però ad essere rispolverata è la facciata più atmosferica e psichedelica (come Black Sabbath, Planet Caravan o Hand of Doom), che inculca a chi ascolta un tremendo senso di angoscia.

 

Un album forte e che lascia il segno. Ne  sconsiglio l'ascolto prima di andare di andare  a dormire, dato il suo orrore sussurrato nelle orecchie. La perfetta reinterpretazione di una decade da parte di gente che nel 1990 puzzava ancora di punk rock, hardcore e trash e si divertiva a rammentare le nenie infantili di una generazione vuota. voto 7,5

Dany75

Un alternarsi continuo di atmosfere e sensazioni è la cosa che più stupisce: si passa da attimi ragionati e melodici a sfuriate tipicamente thrash-death senza alcun problema. In tracce come "Turn The Page" il gruppo dimostra senza mezzi termini di saper sfornare ancora riff spaccaossa e che non permettono nemmeno al più freddo ed inflessibile degli ascoltatori di non lanciarsi in un sano e grezzo head-banging.

Vogliamo poi parlare del suono? Eccezionale! Granitico nei momenti in cui serve picchiare, rilassato e ricercato là dove deve emergere la melodia. Si senta "Edge Of Madness" per avere un'idea di come gli Hypocrisy sappiano combinare entrambi i momenti alla perfezione. Partenza affidata al pianoforte, un riffing sufficentemente cattivo e poi ritornello accattivante e corposo pur nella sua ricercata armonia.

La stessa opener, "Don't Judge Me", entra presto in testa e lì si radica, al punto che per alcuni giorni non potrete fare a meno di lei. Si propone quasi come una dimostrazione di intransigenza prima di passare a "Destroyed", la quale invece, nonostante l'incipit classico, emerge come un primo passo verso una certa sperimentazione melodica.

Procedendo nell'album, ogni singola traccia meriterebbe di essere menzionata e commentata a parte; accade ancora, per fortuna, che escano album composti per piacere dall'inizio alla fine. Soprattutto accade ancora che un gruppo storico (e sfido chiunque ad affermare il contrario) sappia rinnovarsi in continuazione senza cedere in quanto a qualità. Insomma, questi tre svedesi sono tutt'oggi una delle realtà più valide in circolazione, e meritano di essere riconosciute come tali.

Chiudo con un invito rivolto a tutti: dimenticatevi degli Hypocrisy come l'ennesimo gruppo Death, e date in qualunque caso un ascolto a "Catch 22". Qui c'è spazio per tutti, dal deathster incallito, ai nostalgici del vecchio thrash, agli innamorati del tipico swedish sound ma anche per chi adora la sperimentazione. Se avete capito quello che voglio dire, a quest'ora dovreste già essere pronti a recarvi al più vicino negozio di dischi.

 

TWOLFF

 

Tornano sulle scene i maestosi Septicflesh dopo il fenomenale The Great Mass (2011), ritornando a proporre il loro death sinfonico, pomposo ed prepotente al tempo stesso. La band greca è ormai diventata un pilastro all'interno del Death Metal e si conferma, anche con questa uscita, in grado di creare atmosfere sovrannaturalmente incredibili accostate ad una violenza interiore, che esplode verso l'esterno, travolgendo l'ascoltatore in un turbinio di orchestrazioni maestose e riff spaventosamente d'impatto.

Il nuovo album è intitolato Titan, dalle ancestrali figure della mitologia greca, così come titanico è il lavoro che sta dietro questo disco. Già nel 2008, con Communion, il lato orchestrale si è fatto più epico e gli arrangiamenti hanno raggiunto livelli incredibili per un gruppo death, con composizioni subliminalmente vicine alla musica classica, in opposizione allo straordinario lavoro compiuto dalla sezione ritmica e dalle chitarre, che bilanciavano l'aggressività con la drammaticità della sinfonia composta. Tre anni dopo è stata la volta di The Great Mass, in cui la qualità del songwriting si è innalzata ulteriormente, ed ora con Titan i Septicflesh sono riusciti ad elevare ancor di più il loro personalissimo death style. Tutto questo è palesemente deducibile già dalla opening track, War in Heaven, devastante, oscura, dal maligno incedere, enfatizzatrice di quel titanico sforzo annunciato in precedenza. L'orchestrazione possente si sposa alla perfezione con la decadenza rimarcata dalle chitarre e dall'immenso e poderoso growl di Spiros "Seth" Antoniou. La seguente Burn è segnata dalla duttilità vocale del cantante, dal chorus sinistro, minaccioso e dall'impatto del mostruoso riffing delle chitarre e dall'incessabile martellamento della sezione ritmica. Sopraffina, quasi commovente è la parte finale che intreccia assoli ed orchestrazioni. Order of Dracul, già presentata come anteprima dell'album, è l'emblema di Titan, una composizione che miscela parentesi ispirate alla musica classica, potenza del death raffinato, atmosfera drammatica, a momenti teatrale; una traccia da ricordare e ascoltare di continuo. Arriva poi la diversa Prototype, connubio di impetuosità e misticismo composizionale, ricca di orchestrazioni di alto livello e di un chorus arricchito da voci infantili, che conferiscono alla canzone quell'atmosfera di mistero e di tormento sinistro oramai marchio di fabbrica dei Septicflash. Dogma riporta alla mente i tempi di Sumerian Deamons, confermando il fatto che la band greca mira a sviluppare il proprio stile, ma che comunque continua a richiamare le proprie origini ed a non voler slegarsi per nessun motivo da esse. La parte operistica che si trova circa alla metà del pezzo marca fortemente il legame tra passato e presente, con una nuova lode al songwriting dei giganti greci. Prometheus, altro formidabile cenno ai titani ed alla mitologia della nobile terra di Grecia, è un brano dominato dal vocalist e dalle melodie tipiche del sound dei Septicflash, di grande impatto nel suo incedere, rappresenta un momento di respiro per la sezione ritmica e per l'intero album, lasciando maggior spazio al lato sinfonico. La successiva è la title-track, Titan, aperta dal mostruoso growl di Spiros "Seth" Antoniou, torna ad incidere grazie all'enorme lavoro dell'intera band, da sottolineare la potenza sprigionata dal chorus, assurdamente impressionante. Confessions of a Serial Killer, cinematografica nella sua introduzione, accompagna l'ascoltatore in un viaggio all'interno di una mente distorta, con rappresentazioni sonore raffiguranti la dicotomia bene/male. Ground Zero mantiene l'aura dannata di Titan, seguitando a lavorare nel subconscio dell'ignaro spettatore, con un bellissimo intreccio fra voce pulita e growl e un'alternanza notevole di stati d'animo che sorgono durante lo scorrere della musica. La conclusiva The First Immortal vede ancora una volta il vocalist primeggiare, portando pian piano il silenzio a prevalere.

Al termine di Titan sono ben poche le parole da sprecare. I Septicflesh hanno incastonato una nuova gemma nel loro prezioso scrigno discografico. Non è questo il luogo dove abbandonarsi... voto 9

Dany75

Ci siamo finalmente, qui si parla di storia ragazziOzzy cercava nuovamene un chitarrista con cui collaborare, e alla sua audizione si presentò ..., appena diciannovenne.   lui!!, di uno dei più bravi chitarristi metal ancora oggi in circolazione: Zakk Wilde.Questo disco è stata una vera rinascita per Ozzy, e il loro affiatamento si è visto subito. Inutile decantare la bravura di Zakk e il suo tocco unico. Pezzi come "Crazy Babes", "Devil Daughter" e "Miracle Man" ti colpiscono subito, per la melodia e per il riffing sfizioso, oltre ai soli di chitarra per quali nei confronti di Zakk, dobbiamo solo inchinarci.L'unica canzone che non mi piace tanto è "Fire In The Sky", la trovo un po' scontata come ballad, ma questo è un piccolo dettaglio personale, dato che su più fronti ho sempre sentito parlare di questa come una gran bella canzone.In definitiva il nostro madman sul finire degli anni '80 non ci ha deluso e si e' mantenuto in perfetta forma, ma soprattutto ha fatto conoscere al mondo uno come Zakk Wilde, che certo non poteva desiderare di meglio come esordio, e ci ha regalato l'ennesima perla del suo talento. voto 8

 

Dany75

Six Six Six, The Number Of The Beast! Un album entrato nella leggenda e composto da delle leggende dell’Heavy Metal. Disco che ha in sè la ruvidezza, il lavoro di chitarre e di basso dei primi due album dell’era Di Anno con l’aggiunta, come precedentemente detto, dell’acquisto di Dickinson: cantante dall’inconfondibile voce, potente e acuta. Il tutto collabora a dare quel tocco orecchiabile e melodico ai brani: meno spigolosità e maggiore spazio all’interpretazione ed all’aspetto emozionale. Le tracce sono praticamente tutte ottime, ma i pezzi forti sono a mio avviso Children Of The Damned - melodica, trascinante e con un’interpretazione vocale di Dickinson da brividi -. 22, Acacia Avenue è una strepitosa cavalcata metal dove si sente l’ottima tecnica e l’intesa dei vari componenti della band. Una straordinaria canzone che porta avanti il discorso intrapreso con Charlotte The Harlot, la storia della prostituta narrata nel corso del platter del loro debutto e che verrà conclusa con From Here To Eternity, capitolo conclusivo della saga. Run To The Hills è invece una canzone briosa ed energica e diverrà uno dei cavalli di battaglia delle esibizioni dal vivo. Il capolavoro assoluto dell’album è Hallowed Be Thy Name (il cui testo parla della pena di morte): brano dall’inizio lento e intenso per poi  arrivare a tutta velocità in fondo, in un susseguirsi di emozioni. Strumentalmente è strepitosa (vedi parti di basso e chitarra) e vocalmente la prestazione è eccezionale. Una pepita di valore inestimabile nella cassa del tesoro dei Maiden. Unici pezzi, a parere di chi scrive, non all’altezza del resto del materiale sono Gangland e Total Eclipse; quest’ultima è una traccia in origine esclusa dal disco stampato nell’ 82 ed inserito nel singolo di Run To The Hills, in seguito aggiunta alla track list della remaster del 1998.

 


The Number Of The Beast è forse il disco che assieme a Master Of Puppets dei Metallica è entrato di più nell’inconscio collettivo di tutto il popolo metallaro. Up The Irons!

TWOLFF

 

E' vero... è inutile fare una recensione di "Appetite for Destruction" quando è già stato recensito più volte... ma io devo asscolutamente recensire questo album, il mio prefertio dei Guns nonchè il mio preferito in assoluto. Ci troviamo nel 1987, e quindi nei mitici anni ottanta, anni di hard rock, heavy metal, anni in cui emerge la voglia di cambiare le cose. Simbolo e sintetizzazione di ciò che accadeva in quel periodo è questo splendido, favoloso, secondo me anche inimitabile disco dei Guns N' Roses. Rabbia e aggressività sono le due parole chiavi di questo album, che porta ad identificare il gruppo nel versante hard rock, più che nell' hair metal/hard & heavy o addirittura totalmente heavy metal dei due use your illusion, comunque unici e fantastici anch' essi. Questo mitico gruppo è stato per me molto importante, in quanto ha orientato i miei gusti musicali su generi totalmente diversi da quelli che ascoltavo in precedenza: dal pop radiofonico di scarsa qualità alla maestosità del rock. La loro prima canzone che ascoltai fu "Welcome to the jungle", me la fece sentire un mio amico che se la ritrovava sul suo pc, pur non essendo un loro fan. Mi piacque molto, era potente, decisa e convincente. Scelsi così di informarmi sul gruppo e di ascoltare altri singoli. Bene, da allora le loro canzoni per me sono diventate uno stile di vita per la loro varietà: scarico la rabbia accumultata attraverso pezzi come "Out ta get me" e "Nightrain", trascorro attimi di tristezza con pezzi quali "Don't cry" e "Sweet child of mine", mi cullo nell'orecchiabilità e nei tranquilli assoli di chitarra di ballate come "November Rain" o "Estranged" e rifletto sul mondo di...(uffa... non voglio dire volgarità nelle recensioni) che ci ritroviamo ad affrontare oggigiorno ascoltando pezzi come "Civil war". Certo, i mitici Guns sono stati sempre piuttosto scalmanati per via degli eccessi di alcool e droga, ma la loro "sensibilità" e il loro essere "umani" non sparisce, ma rimane intrappolato nei profondi significati di molte delle loro canzoni. Riguardo gli aspetti musicali... caspita ragazzi, Axl Roses (che non ho tanto  apprezzato per il suo comportamento) è un adulto, eppure, come anche il cantante dei Led Zeppelin, raggiunge acuti che per poco neanche un neonato riesce a toccare. E poi, cavoli, non mi sembra di ricordare un pezzo dei Guns in cui non ci sia un assolo del mitico Slash. Ognuno di questi assoli è a sè stante e  racconta una storia diversa, che immancabilmente si adegua perfettamente al resto della canzone. Parliamo ora degli apetti specifici dell'album: quest'ultimo si apre con la già citata "Welcome to the jungle"; intro con note alla chitarra in parte distorte ed accompagnate da un delay più o meno evidente, per poi trovare appoggio nei colpi improvvisi del basso e della batteria e poi partire con un riff di accordi, accompagnato da un più che rabbioso axl roses. Poi c'è il ritornello, spettacolare, casinista ed energico quanto basta: " Jungle, welcome to the jungle...". In alcune parti il brano sembra fermarsi, ma poi ricomincia nella sua continua e caratteristica aggressività. La traccia numero due è "It'so easy", "E' così facile". Inizialmente la struttura della canzone sembra ricordare la traccia precedente, ma in seguito si può scoprire che non è così e anche questo pezzo rivela di possedere una propria personalità. Rabbiosissimo il "fuck off" che dà il via all'assolo di Slash, che rende più originale il pezzo. La terza traccia è "Nightrain". Ripenso al fatto che ai primi ascolti mi aveva dato un'impressione pessima. E ora mi chiedo come abbia potuto fare. "Nightrain" è un pezzo stupendo, soprattutto per l' energia sostenuta da un'ottima orecchiabilità nel ritornello. E poi... la sorpresa dell'uovo di pasqua; l'assolo: Oh, Dio... una genialata!!! Davvero strabiliante. Le note improvvisate rendono poi ancora interessante il ritornello. Poi Axl si ferma e lascia spazio a Slash che lascia terminare questa canzone fra le note della sua mitica chitarra. Quarto brano: "Out ta get me"... A me questa canzone fa venire un'irresistibile voglia di mandare a quel paese il mondo e tutti coloro che non sopporto. Adoro questa canzone ancora di più nei live, perchè la fa sembrare sempre più "emozionante" e "terribilmente" rabbiosa. Riguardo la struttura del pezzo è da notare l'improvviso cambio di tonalità parallelo all'assolo. Bellissimo ed interessante dal punto di vista musicale. La traccia numero cinque è intitolata "Mr Brownstone" ed è molto particolare. E' forse una delle meno tecniche, ma non so come mai mi convince molto, forse per la sua diversità. Anche qui un assolo, molto bello. La sesta canzone è "Paradise city" che parte con un arpeggio ad una chitarra elettrica non distorta, simile a quella di "Knockin on heavens doors". Fin qui niente di eccitante ma poi...colpo di genio! Il FISCHIETTO!! Ancora  non sono riuscito a trovare un'alternativa migliore per il cambio con il riff duro e distorto della successiva chitarra. Il pezzo continua così e si sviluppa fra cambi di tonalità, aumenti di velocita  ed assoli e alla fine Slash aumenta il livello della tecnica esibenedosi in note molto veloci che accompagnano Axl Roses. Il brano numero sette è "My Michelle" che comincia con delicate note alla chitarra, al basso e alla tastiera per poi cambiare suono dimostrando un'imponente rabbia con un riff di chitarra distorto e gli acuti del cantante. Ottima traccia anche questa, con il suo orecchiabile ritornello "Well, well, well My Michelle". Le altre tracce sono anch'esse fantastiche, tra gli arpeggi del ritornello di "Think about you", la violentissima "You're crazy", e le ottime "Anything goes" e "Rocket Queen". Ci tengo a descrivere in maniera particolare la romantica "Sweet child of mine", che parte con note dolci ma distorte alla chitarra elettrica (voglio ricordare che questa magnifica canzone è stata plagiata da Ligabue) per poi diventare più ritmata. L'assolo è il mio preferito fra tutti quelli che finora ho ascoltato (non solo dei Guns) e anche se non è particolarmente tecnico lo preferisco a quelli troppo incasinati come quelli dei Dragonforce, poichè secondo me è più soddisfacente un'ottima dose di anima,cuore e creatività che di tecnica. Consiglio a tutti questo album. voto 9

Dany75

Le braci di Isengard divampano di nuovo, e migliaia di troll emergono dalle profondità della terra per salutare agitando i loro neri stendardi l'ennesima fatica di Silenius e Protector, che per la sesta volta trasformano l'Austria nella Terra di Mezzo.
Summoning sono tornati, e non esistono 70 minuti di musica più rassicurante al mondo per chi, come loro, ha dedicato i propri sforzi artistici all'immaginazione e la penna dello scrittore più riverito del panorama fantasy: J.R.R. Tolkien. Definire la musica di questa band è un compito titanico, giacché non si può ascrivere a nessun genere, e i paragoni non vengono in aiuto.
Il black metal che ha aperto la loro carriera si è velocemente trasformato in un gracchiante black metal di impareggiabile impatto epico; chitarre e percussioni lasciano volentieri il passo a sintetizzatori sinfonici e drum-machine che hanno l'oneroso compito di trascinare, minuto dopo minuto, l'ascoltatore tra le verdi contee e le minacciose cordigliere dell'universo tolkeniano, per prendere parte alla marcia di una pattuglia di orchi o al minaccioso cavalcare dei Nazgul verso il regno degli Uomini.
L'immaginativo è il punto di forza dei Summoning: già in passato si sono avvicendati lavori molto ambiziosi che hanno scavato nei meandri della terra di mezzo, svelando i misteri di Minas Morgul e di Granburrone, e incantando decine di migliaia di ascoltatori in mezzo mondo. 

Anche in questo caso, Oath Bound non tradisce le aspettative di nessun fan: durante il sofferente corso di oltre 69 minuti di musica trionfale, intere civiltà si sgretolano come montagne, e bastioni crollano sotto la marcia delle tenebre, trascinando l'audience un un emozionante viaggio cinematografico che si estingue solo molti minuti dopo la fine dell'ultima traccia, quando ancora nell'aria rimbomba il sontuoso coro di "Land of the Dead", e la mente ripercorre il sentiero appena percorso con un misto di malinconia e sollecitazione intellettuale. Alla stregua di lavori come Let Mortal Heroes Sing Your Fame e Minas Morgul, l'apertura è destinata a una strumentale di riscaldamento - insolitamente folkeggiante e allegra per gli standard a cui siamo abituati - la quale risulta persino viziata da ingenue varianti come un'arpa pizzicata o un flauto da osteria, il tutto condito da un recitato in voce pulita che introduce alla trionfale "Across the Streaming Tide", una sfida artistica della durata di oltre 10 minuti in cui Protector raffina un cantato della qualità di Let Mortal Heroes Sing Your Fame. 

Nonostante la durata critica, l'usuale e incessante oceano di chitarre compie il suo lavoro in maniera egregia, trascinando l'ascoltatore in quel mondo scandito dalle solite, sparse percussioni di timpani e dalle tastiere spesso interrotte dal lontano risuonare di corni, che lasciano intravedere la grande novità di quest'album, "Mirdautas Vras". Scritta e cantata interamente nell'oscura lingua degli orchi, questa canzone è uno dei picchi più emozionanti del disco: frequentemente infatti interrompe il proprio percorso lasciando udire la terribile marcia degli orchi, che urlano all'unisono al suono dei corni da battaglia. 
Marziale fino all'estremo, Mirdautas Vras è un'esperienza come poche nel panorama metal, ed è probabilmente tra le canzoni più minacciose mai scritte dal combo austriaco, probabilmente grazie allo stridulo cantato in una lingua talmente peculiare da trasformarsi nel primo (e unico) testo mai stampato su un libretto dei Summoning. 

Da qui l'album potrebbe segnare una battuta d'arresto, e invece è proprio in "Might & Glory" che la band tira fuori il meglio di sé, realizzando un sapiente miscuglio di tastiere eteree e misteriose, cori drammatici e articolati e fiati che sembrano provenire direttamente dalla tradizione musicale delle stirpi di Lothlorién. Ancora una volta, la canzone appena trascorsa si trasforma per volontà superiore in una preparazione alla successiva, "Beleriand", che se possibile è ancora più imponente nella sua introspezione paesaggistica, ove pare quasi di sentire lo scorrere dei fiumi sulle note del flauto imperante e sul cinguettare un po' imbarazzante di un paio di uccellini monovocalici. 

Granitica nella sua ripetitività, "Northward" è forse la più confusionaria di tutte le canzoni presenti sull'album: i brevi ma violenti refrain sono gli unici responsabili della presa di coscienza di chi sta percorrendo questo viaggio musicale dall'inizio: l'incessante fluire delle grezze chitarre e la familiarità dei sample di corni, flauti e trombe generano un'ipnosi quasi pericolosa, durante la quale la mente compie viaggi allucinanti tra valli, boschi ed eserciti accampati formando la propria storia e le proprie esperienze quasi extracorporee. 
Quasi quando il CD inizia a diventare terapeutico, "Menegroth" cambia le carte in tavola, iniziando a mostrare i carichi più importanti. Non che il riff principale sia di grande originalità, specialmente nel contesto dei Summoning, ma i piccoli accorgimenti che arricchiscono i quasi nove minuti di questa traccia rendono giustizia alla perizia con la quale, ancora una volta, è stata programmata l'intera sezione delle percussioni, qui più che mai in primo piano a scandire i diversi strumenti designati alla ripetizione dello stesso, ripetitivo e ossessionante riff. 
Proprio mentre il viaggio sta per finire e la realtà inizia a bussare alla porta, "Land of the Dead" rapisce per l'ennesima volta l'immaginazione, distruggendo ogni futile tentativo di resistere al coinvolgimento emotivo di un album come Oath Bound.
Land of the Dead ha la colpa di sparare in sequenza tutte le cartucce più epiche del duo austriaco: Protector ritorna in possesso del microfono, e prepara una sequenza di 12 minuti in cui vibrano le corde più malinconiche e tragiche dell'intera produzione della band. L'inizio di pianoforte, le tastiere atmosferiche e le chitarre stridule e nervose occupano il campo per quasi sette minuti durante i quali gli orecchi più fini percepiranno, a intervalli regolari, dei brevi singulti corali: sono il prodromo dell'esplosione di uno dei cori più epici della loro produzione, che si snoderà senza soluzione di continuità fino al termine della canzone, ripetendo ossessivamente le stesse strofe finché l'alternanza delle due melodie portanti, tragicamente sottolineate da un flauto perso nella tempesta delle percussioni, non si spegnerà lasciando una scia di desolazione e di morte. Ci troviamo probabilmente di fronte alla canzone più imponente di tutta la loro produzione, seguita a poca distanza da quel "Farewell" conclusivo di Let Mortal Heroes che già aveva insinuato il presagio che qualcosa di grosso sarebbe accaduto nell'album successivo.

Non ci sono molte parole per descrivere il flusso di emozioni che genera ogni singolo album dei Summoning. I Summoning sono i Summoning, che piaccia o no.

Il disco è fatto per appagare senza mezzi termini solamente i loro numerosi fans. I detrattori di questo tipo di musica-non musica, di questo black traditore stravolto da un'enorme carica ambient/epica non cambieranno di certo idea con quest'album, anzi se possibile potrebbero inacidire ancora di più. 

Ma considerando che come i Summoning non c'è praticamente nessun altro, e che bisognerebbe coniare un genere musicale solo per loro, direi di lasciarli scalare la loro montagna da soli. Non rubano spazio a nessuno, e di certo non incentiveranno nessuno a percorrere il loro sentiero, vista l'estrema peculiarità del genere suonato. È una questione di amore e odio. La loro presenza non guasta, tuttavia se non ci fossero molti di noi avrebbero uno spazio nell'anima difficile da riempire con altro. Chi è attratto da questo genere di sound ma ancora non li conosce, gli dia pure una possibilità; chi è già loro fan sarà in visibilio da mesi e quindi qualunque parola sarebbe superflua, e chi proprio non riesce a digerire il loro stile... beh, il mondo è pieno di band che aspettano di essere scoperte. 

Per mia personale opinione e gusto ritengo che Oath Bound sia il disco del 2006, almeno finché una certa band svedese che anche porta il sigillo di Tolkien non decida di lasciare un marchio ancora più profondo. Staremo a vedere: quest'anno si prospetta davvero esplosivo.

TWOLFF 8.5

IMMORTAL: ALL SHALL FALL.

Recensione presa da Metallus.

By TWOLFF

Gli Immortal sono di nuovo tra noi. La reunion live che aveva preso vita nel 2007 era già di per sé un avvenimento ed un sogno per molti, la notizia di un possibile nuovo album poi ha dato il via ad un attesa che oggi viene totalmente ripagata. “All Shall Fall” è il nuovo lavoro di Abbath e Demonanz (da un po’ di anni solo ai testi) insieme ad Horgh ed Apollyon (rispettivamente batteria e basso), successore del capolavoro assoluto “Sons of northern darkness” del 2002. Chi si aspettava un ritorno alle sonorità ferocissime dei primi tre lavori degli Immortal, resterà un po’ deluso, infatti la band continua su quel percorso musicale iniziato con “At the Heart of Winter” e via via continuato nei successivi lavori che fonde il black degli esordi a bordate thrash, riff gelidissimi e una certa dose di death metal epico. “All Shall Fall” è probabilmente il disco meno black della carriera degli Immortal, ma anche il meno inquadrabile: Abbath e soci infatti riescono a creare un sound senza precedenti ma figlio della tradizione, tanto lineare nel riffing e nell’esecuzione, quanto entusiasmante. Non troverete in “All Shall Fall” brani velocissimi da assalto all’arma bianca, ma neppure parti acustiche o eccessivamente melodiche. Quello che troverete è sostanzialmente musica oscura, costruita su tempi medi ma estremamente pesante e tagliente; lo screaming di Abbath è ancora più gracchiante del solito, forse meno esplosivo del passato, ma dannatamente efficace e profondo. I riff sono lastre di ghiaccio purissimo che si abbattono contro l’ascoltatore, con una forza magnetica che se in un primo momento lascia spiazzati, poi finisce per essere irresistibile. “All Shall Fall” è un disco estremo, non per violenza sonora, ma nelle sensazioni che ci regala, sensazioni di oscurità glaciale, di desolazione, ma anche di forza e potenza, di inafferrabile epicità. Se vogliamo fare qualche paragone sicuramente è un album vicino a “Sons of northern darkness”, ma se il precedente album si basava su un assalto sonoro ancora ben violento e senza compromessi, qui gli Immortal, senza disdegnare blast beat e doppia cassa, agiscono sulle atmosfere: magiche, nordiche e glaciali. Uno dei pochi dischi che può essere accostato ad “All Shall Fall” penso sia “Blood Fire Death” del compianto Quorthon, i cui Bathory vengono citati a più riprese dagli Immortal del 2009. Analizzare i 7 brani dell’album sarebbe una perdita di tempo, inutile parlare di chorus e strofe. “All Shall Fall” diventa il top album di questo 2009 e si candida per diventare una pietra miliare del metal estremo: gli Immortal si riconfermano puri ed incontrastati signori del black metal.

Esistono persone capaci di creare, con molto poco, dei veri capolavori: questo è il caso di Quorthon, che nella sua lunga carriera scrisse alcuni tra i migliori dischi di viking/epic, ma sicuramente con questo "Twilight Of The Gods" raggiunse il punto più alto del viking in generale, si...ne sono fermamente convinto, per due motivi fondamentalmente:

 

1) "Twilight Of The Gods" contiene alcune delle canzoni più belle del viking epico

2) "Twilight Of The Gods" contiene le più belle canzoni dei Bathory

 

Siamo nel 1991, ed i Bathory sono in circolazione già da un pò di anni, è risaputo che il gruppo non è sicuramente formato da geni musicali (tecnicamente parlando), ma ciò che più dà da pensare ai fan del gruppo è: "Quale strada deciderà di prendere Quorthon? Si tornerà al black cacofonico dei primi album?? Si continuerà il discorso di Death Blood And Fire?"... bhè la risposta è semplice, quel geniaccio di Quorthon fa quello che meglio gli viene... fregarsene di tutto e tutti e compone ciò che si sente... ed indovinate??? Nasce un vero capolavoro formato da 7 perle di viking, perle che rispondono al nome di "Twilight Of The Gods", una suite maestosa di 14 emozionantissimi minuti: la canzone di apre con una lunghissima introduzione suonata tutta in sordina, alla quale si uniscono poi, in un fantastico intreccio melodico, chitarre elettriche ed acustiche, che tessono una melodia pesante e cupa  accompagnata da un testo splendido. La teatralità della voce del cantante e i grandiosi cori che fanno da sfondo rendono la canzone veramente squisita e per nulla pesante da ascoltare. Si passa così a "Through Blood By Thunder", canzone che getta le basi alla stragrande post-produzione bathoriana, che comincia con un arpeggio inziale abbastanza calmo, al quale si attacca poi una base molto cadenzata basata su una ritmica quadrata e possente che viene accompagnata da un cantato particolarmente poco aggraziato che rende il tutto molto particolare. Dopo questa perla passiamo a "Blood And Iron", grande classico della produzione del gruppo, che si apre con uno stupendo arpeggio di chitarra acustica molto triste, che si trasforma poi in una canzone più complessa rispetto alla precedente: le chitarre si fanno più aggressive e i tempi di batteria risultano essere molto più vari e complessi. La monotonalità della voce di Quorthon è questa volta un pò il punto debole della canzone, che viene leggermente imbruttita. Il livello generale della song è comunque eccellente. 10 minuti di pura epicità. "Under The Rune" ci mostra invece un vocalist in grande forma, che ci offre una prestazione veramente ottima andando a costruire delle linee vocali eccellenti, accompagnate da cori fantasticamente epici. La base melodica è semplice, quasi elementare, ma non per questo brutta anzi... la melodia portante risulta essere una delle migliori dell' album, dove musicalità leggere ed aggressività sono perfettamente dosate. "To Enter Your Mountain" è la song che invece meno mi ha attirato, non perchè brutta (anzi, paragonata al viking moderno è qualcosa di innarrivabile), ma perchè complice una base che si rifà troppo a quella di "Twilight Of The Gods" ed un cantantato veramente pessimo risulta essere oscurata da cotanta bellezza(mi duole dirlo). "Bond Of Blood" riprende il percorso intrapreso con la precedente canzone, rispetto alla quale risulta essere però molto più ricca di spunti ed accompagnata da un cantantato migliore; bellissime le linee di chitarra elettrica che fanno da padrone in tutta la durata della canzone. L'ultima "Hammerheart" è una delle più belle canzoni che io abbia mai sentito: nulla di particolare dal punto di vista tecnico/strumentale, sia chiaro, ma la carica emotiva che sprigiona questo coro vichingo è qualche cosa di mai sentito prima d'ora; la teatralità e l'emozionalità che sprigiona la voce di Quorthon in questo pezzo è qualcosa di unico e fantastico. Ottima la melodia portante, assolutamente priva di chitarre e tutti gli strumenti classici quali basso e batteria (quest'ultimo compare solo con i piatti nel sognante ritornello).

In definitiva questo è sicuramente uno dei più bei dischi che io abbia mai ascoltato, ed è sicuramente il miglior prodotto di viking mai concepito; la produzione del disco, abbastanza sporca, rende il tutto più fantastico e gradevole. voto 9

Dany75

Chi si aspettava con Eclipse un netto ritorno al passato potrebbe essere rimasto deluso, ma sicuramente quest' album della band finnica segna una rinascita dopo Am Universum e Far From The Sun.

Prima di tutto è tornato il growl, grazie al nuovo cantante Tomi Joutsen: benché il suo clean non sia così pulito come quello di Pasi Koskinen, riesce a dare forma a bellissimi momenti (sfruttando ampiamente il suo maggiore ed emotivo range vocale). Il lato prog del gruppo si fa sentire molto di più a discapito dei toni orientaleggianti e l’accento folk, quasi del tutto scomparsi (il lato folk rimane, comunque, all'interno dei testi, quasi tutti tratti dal Kalevala.). Inoltre, benché si senta che si sono molto concentrati sulla tecnica (ma non rinunciando all'impatto sonoro), si sente come quest’album sia molto più ispirato del precedente “Far from the sun”.

Nel pezzo di apertura “Two moons” le atmosfere sono crepuscolari, i suoni prog e psichedelici. L'intro del pezzo richiama fortemente l'apertura di "Rapture of the Deep" dei Deep Purple, per quel suo andamento orientaleggiante. La prestazione vocale è sicuramente solida e fa ben sperare per il proseguo dell'album. “House of sleep” ha suoni molto gothic, con qualcosa che ricorda i Paradise Lost (ma si possono anche sentire accenni alle melodie dei Sentenced d'annata). La seconda traccia è comunque molto lineare ed equilibrata; immancabile l’intermezzo strumentale nel quale ricompare l’hammond. Pur essendo una buona traccia, "House of Sleep" (scelto come singolo) non è rappresentativa dell'album in questione.

“Leaves scar” è nordica: suoni folkeggianti, alternanza di growl e cori, riff ipnotici fanno tornare indietro col pensiero ai tempi di Elegy e Tuonela. La prestazione in growl di Tomi è una piacevole sorpresa, posizionandosi su tonalità cavernose ma molto melodiche (per quanto concesso dal cantato gutturale).

“Born from fire” è un pezzo particolare, non di semplice ed immediato recepimento. Il riff di Esa è buono, la canzone ha un buon piglio, spiegandosi in combinazioni di chitarre efficaci e melodie intriganti .

“Under a soil and black stone” è una ballata melanconica: niente di particolarmente eclatante: atmosfere tristi sottolineati da suoni cupi e da una voce struggente. Solo dopo la metà del pezzo subentra una chitarra ipnotica che dà vita al pezzo. La voce del nuovo frontman muta da toni emotivi a uno scream di stampo leggermente statunitense, sottolineando il climax della canzone.

"Perkele (The God of Fire)" è un pezzo che all'inizio può spiazzare. Il suono delle cornamuse non è uno degli effetti che ti aspetteresti dal gruppo finlandese, ma passano subito, lasciando il posto ad un brano ruvido ed efficace. Un'altra volta il growl fa da padrone nelle strofe, per poi lasciare spazio ad un clean ruvido nel ritornello.

Uno dei pezzi che può ambire a diventare uno dei migliori dell'album è all'altezza della 7 traccia. "The Smoke" è un grandissimo brano. Esa crea una struttura chitarristica sopraffina e il resto della band sembra tornato alla forma migliore, accompagnandolo in maniera egregia.

Anche il cantanto merita una menzione, puntuale nel clean ed energico nel ritornello.

A seguito di questo grandissimo pezzo c'è "Same Flesh". Brano che potrebbe non piacere subito o creare qualche disagio nei fan dei Nostri (sempre esigenti e sempre memori delle prove vocali plumbee forniteci in "Tales" ed "Elegy"). Il pezzo presenta una linea vocale molto esuberante, con chorus potenti ed enfatici. Anche la struttura del pezzo è smagliante, potente e lucida. Servono ben pochi ascolti per memorizzare il semplice: "Same Flesh... Same Blood".

"Brother Moon" è il secondo pezzo che potrebbe aspirare alla palma del migliore del lotto. Testo semplice, prova corale avvicente e precisa (ma passionale). Nota di merito ad un Esa superlativo, che pesca un giro di chitarra che farebbe felice un certo Blackmore e lo trascina, grazie ad un climax intenso, in certi territori visitati, anche se con altre componenti, dal Dirigibile con "Gallows Pole".

"Empty Opening" viene introdotta da un effetto tastieristico particolare che, poi, lascia spazio ad un pezzo interessante, con un vago accento "spaziale". Si potrebbe facilmente definire questo brano un riempitivo o di minor intensità, ma, dopo un paio di ascolti, si sente la bontà del pezzo.

La bonus track di Ecplipse è "Stone Woman". Una buona canzone, ma non è sicuramente un capolavoro, diciamo che fa il suo mestiere da traccia bonus senza lode né infamia. I termini di paragone si possono rintracciare in certe composizioni dei Paradise Lost e di alcune band gothic-metal, dark-metal, o così via.

Il disco, lo sottolineo e me ne prendo la responsabilità, lo consiglio vivamente. Ok, tutti noi Amorphis-fans siamo legati alle sonorità di Tales e Elegy (o Tuonela) e non possiamo scappare, ma non possiamo restare sempre nel passato. Il disco è una grande prestazione di una formazione finalmente rinfrancata e tonica (rigenerata) e in buon spolvero creativo. Compratelo. voto 7

Dany75

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  • #1

    omen (mercoledì, 19 marzo 2014 22:02)

    ottimo disco

Cari amici di Horrorscape, siamo giunti nel 2009, anno in cui fu pubblicato questo album dei nostri amati Crematory.

Seguo questa band da tanti e tanti anni ormai. Posso innanzitutto premettere che, i Crematory, come poche altre band, dopo una lunga carriera RIESCONO ad essere tremendamente coerenti nella loro musicalità. Basti ascoltare Believe, datato 2000, per accorgerci che, Infinity, riporta quelle sonorità tipiche della loro originalità degli album più datati. Questo di stasera rispetta pienamente quella che, per me, è la vena stilistica della band: cantato growl, alternato egregiamente dal cantato normale con interpretazioni e duetti che si fondono tra loro dandoci un ascolto molto soave e gradevole. La tastierista in questo album mostra veramente di stare al passo con gli altri strumenti creando quelle atmosfere malinconiche che ci penetrano nel cervello lasciandoci un segno indelebile. Vi invito ad ascoltare la quarta traccia: Black Celebration, per rendervi conto che qua non parliamo di dilettanti ma di persone che la musica la sanno comporre nel vero senso della parola. Persone le quali dimostrano di credere in quello che fanno e ne sono orgogliosi. Anzi vi posterò proprio questa traccia su Radioscape cosicchè possiate farvi una idea della bravura che hanno i nostri. Leggendo le recensioni dei critici mi rendo conto che questo album è sottovalutato secondo me, come lo è la band. I Crematory, a mio avviso, non hanno mai ricevuto il giusto successo, almeno quello che meritavano davvero, perchè se l'album che li ha portati al successo è proprio Believe, c'è da dire che comunque non si è parlato di loro come si sarebbe dovuto. Ovviamente queste sono solo le mie impressioni a riguardo. Ma resta il fatto che meritavano quantomeno gli elogi che, negli anni, hanno ricevuto band del loro calibro e, forse, anche meno in gamba. Posso solo concludere invitandovi ad ascoltare tutti i loro album almeno dal 2000 ad oggi, soprattutto se siete amanti di quel gothic con cantato growl e qualche accenno all'industrial. Nonostante gli album dei Crematory, per alcuni critici, meritano a malapena la sufficienza, dando 50 addirittura a questo che vi cito oggi, vi invito ad ascoltarlo e giudicare se effettivamente Infinity non merita neanche la sufficienza. Per quanto mi riguarda ogni loro album la merita se non di più. Poi come si dice: Sui gusti non si discute. 

TWolff 04/03/2014

Cari amici di Horrorscape, qualche settimana fa, quasi per caso, ho conosciuto questa band ascoltando qualche loro brano su internet. Sono rimasto alquanto sbalordito perchè, aldilà di tutte le critiche che possano avere gli Insomnium, devo ammettere che nessuna band, sino ad oggi, ha saputo eguagliare così bene i nostri amati In Flames e Dark Tranquillity. In alcuni momenti, sembra quasi di ascoltare proprio gli In flames. 

Si all'inizio possono sembrare brani che danno l'impressione di qualcosa di già ascoltato, è vero; ma bisogna anche andare aldilà delle apparenze e delle influenze. Di sicuro gli Insomnium hanno avuto influenze molto marcate riguardo le due band citate poco prima, ma c'è anche da dire che, nonostante ciò, dei musicisti devono anche sapere suonare e, soprattutto, devono poter inserire qualcosa di personale ed originale in quello che fanno. Se ascoltate la traccia che ho appena pubblicato in Radioscape, capirete subito di cosa parlo. Questo gruppo di musicisti Finlandesi sanno stupire con quei particolari che hanno piena personalità di chi vuol fare musica non solo per somigliare agli altri ma anche per maturare ed inserire qualcosa di nuovo in quello che producono. Personalmente mi hanno convinto. Mi hanno fatto intravedere uno spiraglio di speranza riguardo un genere di musica che, col passare del tempo diventa quasi monotona. Ormai le band raggiunto l'apice del successo sembrano abbandonare quella strada che li ha portati proprio fin li. Alcuni non si fanno danneggiare dal trascorrere del tempo, mentre invece altri si lasciano andare al proprio destino costi quel che costi. Questa band mi fa immaginare che, ancora oggi, c'è tanto da raccontare e da ascoltare. Quelle persone che, come per uno scherzo del destino, sembrano intraprendere la scia abbandonata da altri in precedenza.

Oggi come oggi, secondo me, non conta solo l'originalità nella buona musica, ma bensì la bravura nel sapere proseguire il cammino iniziato da altri. Gli insomnium hanno le carte in tavola per diventare, forse un giorno non troppo lontano, una delle band culto quali i sopracitati In flames e Dark tranquillity. Album da ascoltare senza esitazione. Non aspettarsi moltissimo, ma quel tanto che basta per poter riuscire a comprendere e a capire la loro musica, con leggerezza e senza presunzioni. Come amante di musica metal in genere ormai da moltissimi anni, amante di musica vecchia e nuova, posso consigliare questo album a tutti coloro che, senza troppe pretese, hanno voglia di nuove scoperte e di ampliare la loro conoscenza in campo. Meritano una piena sufficienza.

TWOLFF 26/02/2014 

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  • #1

    Darkman (venerdì, 07 marzo 2014 20:16)

    Bellissima band, degni successori degli in flames

I Dark Age si sono rinnovati radicalmente nel corso degli anni con un percorso che, piaccia o non piaccia, ha una sua dignità. Solitamente quando io definisco un disco metal come “pop coi chitarroni” non è un buon segno, ma in questo caso si tratta di una piacevole eccezione.

A Matter Of Trust contiene 11 pezzi che riescono allo stesso tempo ad essere ariosi ma corposi. Ad essere cambiato è proprio l'approccio compositivo della band che, anziché concentrarsi sui riff, confeziona brani concepiti per essere accattivanti nel loro complesso. Un approccio decisamente più pop per l'appunto, inteso in senso tecnico, senza nessuna connotazione spregiativa.

Una delle maggiori capacità dei Dark Age è quella di riuscire a coniugare il loro nuovo corso con la loro storia, amalgamando la svolta melodica e l'approccio pop con sonorità tipicamente metal e mantenendo, quasi come un vezzo, qualche elemento estremo come nell'aggressiva My Saviour o nel finale di The Locked in Syndrome. Tra l'altro la band non disdegna, in ogni brano, ricche parti soliste, componente chiaramente rock/metal.

Quello che ne risulta è un album variegato in cui si miscelano elementi che riecheggiano da una parte il pop-rock più scafato di gente come i Muse e dall'altra l'alternative metal di razza dei Tool, qualche influenza wave dei Depeche Mode e il tutto certo preso con le dovute proporzioni. Tanto più che si viaggia comunque sul ciglio del ruffiano più spudorato.

Piacevole, molto piacevole, magari non il disco della vita ma se le varianti “pop” del metal fossero tutte così...voto 7,5

Dany75

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  • #1

    Dany75 (giovedì, 20 febbraio 2014 00:05)

    RISPOSTA A NERGAL:sul fatto del cd dei jiudas io nella rece non li ho disprezzati, per me vale 6,5 ma non e' un painkiller, certo che l'ho comprato ci sono 3 o 4 pezzi che sono belli , poi considera l'edizione limitata che e' bella a vedersi, cazzu cazzu su cattu.

Pare che i Naglfar abbiano trovato una propria stabilità, dopo le note vicissitudini avute con label varie (o meglio, varie denominazioni della vecchia Wrong Again Records): un contratto con Century Media è infatti l'approdo sicuro cui una band di valore come la loro può aspirare tranquillamente. In compenso le vicissitudini vi sono state all'interno della line-up: il cambio di cantante improvviso, con la defezione dello storico frontman Jens Rydén per motivi di studio, sembrava influire non poco, specie giudicando dalla scadente esibizione del gruppo nel tour di spalla ai Finntroll. Come già detto ampiamente nel report della data romana Kristoffer Olivius non è certo un cantante di razza, specie quanto a timbrica e presenza sul palco: il carisma è molto lontano dall'esserci, e le sue vocals gracchianti si presentano decisamente inadatte all'epicità dei Naglfar. Questo, almeno, dal vivo. Su disco infatti cambia tutto, potenza della tecnologia: praticamente se non avessi saputo del cambio di cantante non avrei notato la differenza o quasi. Le parti vocali vengono mantenute lunghe, epiche, tirate allo spasimo ed estremamente potenti, adatte a quello che è comunque il disco più feroce mai pubblicato dalla band di Umeå; i riff sono sempre appannaggio della melodia tagliente gestita dai chitarristi, Vargher e Andreas Nilsson, con il solito drumming veloce, seppur non particolarmente complesso, di Mattias Grahn. Pariah è un album che come sempre, perlomeno da Diabolical in poi, fa leva su parti uguali di melodia e ferocia: la caratteristica tipica dei Naglfar è quella di conferire armonie ed atmosfere epiche alla propria musica senza l'utilizzo di tastiere, se non per qualche leggero background qua e là. Una qualità che rende unico il loro sound, che come si sa parte dal black di impostazione tipicamente svedese per evolverlo. Rispetto al precedente Sheol qui c'è un amalgama maggiormente riuscito, è innegabile: la tracklist scorre liscia, senza momenti di noia o quegli episodi un po' trascurabili che facevano del predecessore "solo" un buon album. Pariah è compatto, trova gli arrangiamenti giusti, conforta i fan del gruppo sullo stato di salute compositiva di quella che è stata una delle stelle più brillanti del firmamento scandinavo; e ci consegna una prova di malignità ancor più profonda che su Diabolical, forse il disco che maggiormente si avvicina quanto ad atmosfere a questo nuovo capitolo. Non manca, tra proiettili come A Swarm Of Plagues (che, come sempre, unisce violenza ad una certa "orecchiabilità", specie nel chorus) e The Murder Manifesto, un pezzo cadenzato e forse anche più inquietante come The Perpetual Horrors, il giusto break in una scaletta azzeccatissima. Un nuovo passo in avanti, lento ma deciso, incastonato in una carriera pressoché perfetta: dedicato ai nostalgici, o ai semplici amanti del buon black metal di una volta, quello contaminato, complesso e per questo molto più difficoltoso del sound da caverna con chitarra scordata che tanto va per la maggiore oggi.

TWolff

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  • #1

    Giacomo (domenica, 16 febbraio 2014 06:49)

    bel disco, niente di eccezionale ma molto carino da ascoltare

..Ed è stato questo il primo commento che mi è uscito guardando l'elenco di ospitate presenti nell'ultima fatica dei Whitin Temptation:

Tracklist

Let Us Burn 

Dangerous (feat. Howard Jones) 

And We Run (Feat. Xzibit) 

Paradise (What About Us?) (feat. Tarja) 

Edge Of The World 

Silver Moonlight 

Covered By Roses

Dog Days

Tell Me Why 

Whole World Is Watching (Feat. Dave Pirner)

Pimp my Temptation

I featuring di questo disco sono altisonanti, ma sopratutto tra loro estremamente diversi, quindi analizzerò sommariamente tutte le canzoni dove sono coinvolti (e si, è in arrivo un mini trackbytrack, siete avvisati)

 

Howard Jones

Howard Jones è il primo ad avere la fortuna di duettare con quello splendore fisico&vocale che risponde al nome Sharon den Adel: per chi non lo conoscesse, parliamo di un nome pesantissimo nella scena metalcore, famoso per essere stato il cantante dei Killswitch Engage (si, proprio quelli di questa mitica cover)

 

Da fan della voce di Jones, tuttavia, m'aspettavo un pezzo più ispirato: Dangerous m'è parso un brano apprezzabile per la sua velocità, ma dimenticabile e non troppo coinvolgente.

Xzibit

Passando a And We Run invece troviamo quella che è la novità più impensabile: la comparsata del rapper Xzibit, che confesso conoscere più di fama/vista che vocalmente:

 

il brano è una macedonia originale di due cose che tra loro non c'entrano un beato mulino a vento, e anzi sembra un po' il classico pezzo in stile Within Temptation con uno svogliato loop di rappato dentro: 

 

Originale solo nel suo essere mix, per l'appunto.

 

Tarja Turunen

 

Che è un po' quasi la stessa cosa che potrei dire di Paradise, che vede la partecipazione dell'ex-ex-cantante dei Nightiwsh, Tarja Turunen:

 

L'ovvia differenza sta nel fatto che, al contrario di Xzibit, la Ricciarelli di Finlandia* con il sound dei Within Temptation ci sguazza da na vita, e si sente...forse pure un po' troppo, visto che per me Paradise (che è anche il primo singolo) è la canzone più scontata e noiosa del disco

 

 

anche se, a giudicare dal numero delle visualizzazioni, una scelta commerciale più che azzeccata

 

Dave Pirner

Le collaborazioni si chiudono infine con il veterano Dave Pirner (Soul Asylum) e Whole World Is Watching, probabilmente l'unico brano con l'ospitata che mi ha davvero convinto e mi sento di promuovere:

 

una ballad non troppo pretenziosa che riprende uno stile simile alla vecchia Whate Have You Done,  certo del tutto priva della sua aggressività...ma ci può benissimo stare.

Le teste che svettano

Idra

 

Silver Moonlight, Covered By Roses e sopratutto Dog Days sono le canzoni che più ho apprezzato di questo Hydra:

 

pezzi che confermano una vena pop-rock sempre più preponderante nel sound nel gruppo, che già negli ultimi lavori aveva a tratti rinunciato ad elementi più metallici/sperimentali.

 

In compenso il lato sinfonico ha ampio spazio e risalto, enfatizzato da una produzione di tutto rispetto alle spalle.

Conclusioni

Il paradosso, s'è capito, è che tolta Whole World Is Watching i pezzi featuring sono quelli che meno mi hanno convinto nell'album, che nel complesso comunque non esce troppo dai classici (moderni) stilemi del gruppo:

 

Se avete apprezzato gli ultimi 2-3 dischi dei Within Temptation, è abbastanza sicuro che in Hydra troverete canzoni di vostro gusto (magari non tutte, ma una terna buona quasi sicuramente) voto 7

Dani 75

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  • #2

    dragonfly (martedì, 11 febbraio 2014 22:45)

    molto commerciale ma orecchiabile do un 6 pieno se non altro per le idee

  • #1

    Alfred (domenica, 09 febbraio 2014 08:51)

    Qualche canzone è bella, nel complesso merita la sufficienza

Capita nelle serate d'inverno, quando fuori piove e si ha quel bisogno di starsene al calduccio nella propria dimora, che una strana sensazione ci assale. Stasera mi è capitato per le mani l'album della foto qua sopra e mi è venuto quasi spontaneo spolverare un po' di gothic di classe, a tratti progressive. Non lo ascoltavo da un pò di tempo e devo ammettere che già dalle prime note iniziarono a venirmi i brividi di godimento. Stupendo! Davvero formidabile il suono cupo angosciante e così malinconico di How a measure a planet? Anneke poi è una delle più brave cantanti che io abbia mai ascoltato. Ha una voce davvero unica e travolgente, così come ti travolge la musica dei Gathering. Sono note davvero di classe. Sfido chiunque ami il gothic a non farsi trascinare dalla eccezionale musica di questo album. Non per niente è stato definito il capolavoro della band, seguito da If_then_else e souvenirs. Album tra l'altro lungo di durata.  Infatti il cd è doppio, con 14 tracce di puro godimento. 

Cari amici le loro note sembrano create appositamente per la splendida voce di Anneke, tanto da formare una fusione tra i due al punto tale da sembrare a volte di non avere abbastanza udito per seguire entrambi. In ogni caso, sono un amante del gothic e di questa band, forse una delle più significative del 2000. Invito chiunque a dare almeno un ascolto di questo album per farsi una idea di chi fossero i The Gathering anni fa (purtroppo la cantante ha abbadonato la band da qualche anno), anche se non è da meno la nuova voce. C'è da dire che non ha la classe e la raffinatezza di Anneke ma è comunque brava ed ha una voce altrettanto dolce. Ma la vera band, quella che mi ha permesso di sognare, di evadere a volte da questo mondo sopraffatto dalla cattiveria e dalla falsità, quella band che a volte, ascoltando le loro note, mi ha fatto quasi credere di vivere in un mondo migliore, un mondo fatto di sogni e di speranze, è ormai tramontata e, secondo il mio misero giudizio, hanno compiuto la loro cavalcata di ricchezze sonore con l'inizio, che sarebbe proprio l'album di stasera, seguito da If_then_else, souvenirs ed home. In questi 4 formidabili album è racchiusa la loro storia, la storia di un gruppo di persone che hanno dato il massimo per sorprendere ed emozionare gli amanti della buona musica. Come tutte le band, si sa, hanno quel lasso di tempo in cui riescono ad essere unici ed irripetibili. Buon ascolto amici di Horrorscape. Mi astengo dal votare perchè ogni album da me recensito, d'ora in avanti, avrà piena sufficienza per spingermi a scrivere di esso. Ogni mia recensione sarà automaticamente un buon prodotto di cui parlare, non avrò certo desiderio di perdere tempo con album di cui non sento che valga la pena di discutere. Alla prossima.

TWOLFF

Commenti: 4
  • #4

    TWolff (domenica, 02 febbraio 2014 17:31)

    Grazie anche a te Giacomo per essere un nostro fan, continuate così!

  • #3

    Giacomo (sabato, 01 febbraio 2014 21:32)

    Molto molto carino questo disco. Davvero formidabile la voce della cantante.

  • #2

    twolff (sabato, 01 febbraio 2014 18:13)

    Grazie sara si vede che sei buongustaia continua a seguirci

  • #1

    Sara (sabato, 01 febbraio 2014 10:54)

    Bellissima band e grandissimo album. voto 8

Personalmente non vado matto per i live. Infatti nella mia vastissima collezione non ce n'è neanche il 5% di musica dal vivo. Ma devo ammettere che c'è live e live. E c'è anche band e band.

I therion, si sa, sono ormai una delle più travolgenti realtà del gotic-sinfonico. La loro lunga carriera gode di perle davvero uniche nel loro ambito musicale. Infatti, non per niente, Live gothic è il concerto tenuto dopo l'uscita di uno degli album più belli della loro discografia: Gothic Kaballah. 

Al di là della scelta delle tracce e di come sono disposte, perchè c'è anche da dire questo. Non basta fare un concerto, la cosa davvero importante è la scelta delle canzoni e il modo in cui si dispongono. E in questo caso, c'è il caso di dirlo, Chris ha davvero superato se stesso mettendo in atto dal vivo tracce davvero di gran classe. Ma un'altra cosa da tenere conto è: punto primo la formazione; a quell'epoca, in questo preciso live, esisteva quella che, per me, è stata la migliore formazione della band dagli esordi ad oggi. La seconda cosa, che poi è collegata alla prima, è la loro bravura. Sembra davvero che stai ascoltando i brani dall'album e non dall'esibizione dal vivo. Quella precisione e quel carisma viene coerentemente mantenuto sino alla fine del concerto. Ed è davvero un godimento potere assistere a tali esibizioni di una band di stampo metal. Inoltre, da non sottovalutare che, l'edizione di questo live comprende oltre al dvd del concerto anche 2 cd musicali, che non è cosa da poco considerando che ci si può soddisfare sia in tv che allo stereo.

E' inutile stare ad approfondire ogni singola traccia, la classe è classe e i Therion ne hanno da vendere.

P.s tengo a sottolineare che, anche se per me quella formazione era la migliore, quella attuale non è assolutamente da meno visto e considerato che artisti  come Christofer Johnson sanno il fatto suo. In conclusione cari amici, se amate i Therion questo triplo pacchetto non può non fare parte della vostra amatissima collezione. Alla prossima!

TWOLFF.  

Commenti: 4
  • #4

    ottoman (mercoledì, 15 gennaio 2014 22:13)

    ottimo live grandi therion, annata d'oro

  • #3

    psyco (mercoledì, 08 gennaio 2014 15:56)

    ottimo live mi e' piaciuto molto

  • #2

    Angelika (martedì, 07 gennaio 2014)

    Stupendissimooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo!!!

  • #1

    AngelDust (lunedì, 06 gennaio 2014 21:11)

    Bellissimo live, recensione azzeccata!

Ci tengo a precisare un piccolo particolare come prefazione a questa recensione: io amo gli IN FLAMES alla follia! Ecco perché ho ascoltato e riascoltato questo album 5 o 6 volte nell'ultima settimana prima di dare un giudizio argomentato. Tutto ha avuto inizio verso Aprile 2011 quando la band ha rilasciato il primo singolo estratto “Deliver Us” che è stato ovviamente massacrato e subito crocifisso dalla critica generale del metallaro medio italiano fatta per lo più da gente che pensa che “Lunar Strain” sia il capolavoro degli IF. Dal mio punto di vista, e in questo caso d'ascolto, Il singolo è invece molto ben strutturato e ricco di impatto e notevole presenza, tutto alimentato da una linea vocale che ti prende da subito ma soprattutto realmente “difficile” per le note che tocca. Già perché la prima cosa che si nota è il quasi totale abbandono dello scream/growl da parte di Andres Fridén a scapito di una voce più particolare e subito riconducibile ad egli; una di quelle voci ormai consacrate e riconoscibile in mezzo a mille. Ma roseguiamo nell'ascolto. Negli anni gli IF ci hanno abituati ad album con la canzone n.1 dall'inizio rapido e violento, qualcosa di immediato; ecco quindi un altro cambiamento, la titletrack “Sounds of a Playground Fading” sembra essere invece una sorta di antipasto a ciò che ci sarà nell'album (quindi qualcosa di più tranquillo del “Death Metal Svedese”). Per l'ennesima volta dimostrano coerenza e professionalità non illudendo i fans e non regalando un brano col botto solo perché è ciò che ci si aspetta. Tutti brani dall'ascolto difficile all'inizio ma che meritano davvero diverse riprese per poter essere apprezzati realmente, come ad esempio “All For Me” o “The Puzzle”. Arrivando però alla traccia numero 5 troviamo quello che è senza dubbio il miglior pezzo dell'album (secondo me, chiaramente): “Fear Is The Weakness”. Unite ambientazioni surreali con ritmi geniali nella loro semplice complessità, mescolate aggiungendo un fantastico ritornello e un pizzico di armonizzazioni tipiche degli IF e otterrete questo capolavoro! Si, un capolavoro!! Per chi non credeva negli IN FLAMES dopo 11 album studio ma soprattutto senza Jesper Strömblad (il chitarrista e fondatore ha recentemente lasciato la band per problemi con l'alcol). Traccia numero 6: “Where The Dead Ships Dwell” senza essere ripetitivo, altro brano che risulta fantastico dopo diversi ascolti e che entra assolutamente nella top5 per questo album che vede la sua seconda metà (13 brani, tutto in stile IF) essere altrettanto ricca di sorprese così come presenta anche qualche caduta. Ne è un esempio, di caduta, “Darker Times” che risulta essere davvero un brano poco azzeccato e quasi fastidioso, senza capo ne coda. Molta introspettività invece per “The Attic” e “Jester's Door” due racconti parlati che fanno tirare un po' il fiato. “Ropes” lascia spiazzati per lo stile vocale mentre “Enter Tragedy” e “A New Dawn” sono un ottimo preludio alla finale “Liberation” dove la band si supera proponendo questa pseudo-ballad davvero notevole! In conclusione, quest'album è diverso da ogni album precedente della lunga e gloriosa carriera degli IN FLAMES. In un contesto fatto di copia/incolla questa cosa è solo un altro immenso e gigantesco punto a favore. Promossi anche se non a pieni voti, dato che il risultato finale non è comunque qualcosa che può zittire realmente le bocche larghe e i saccenti del preascolto! voto 8,5

dany75

Commenti: 3
  • #3

    Matteo (sabato, 28 dicembre 2013 17:29)

    Quest'album ancora non lo conoscevo. L'ho ascoltato e mi piace davvero tantissimo.

  • #2

    TWolff (sabato, 28 dicembre 2013 06:27)

    E possedere Jester race in limited digipack introvabile è davvero gratificante!

  • #1

    TWolff (venerdì, 27 dicembre 2013 21:27)

    Bell'album, lo posseggo in edizione limitata insieme a tutta la loro discografia. Bella band!

C'e' chi dice che i Paradise Lost erano davvero perduti dopo la delusione di "One Second", il pop commerciale di "Host" e la noia di "Believe In Nothing". io li chiamo scelte musicali, esperimenti che possono o non piacere.

Con questo "Symbol Of Life", si sono riscattati agli occhi di quella fetta di fans delusi dai lavori sopra citati, incorniciando con questo stupendo lavoro una nuova evoluzione della band.( da me criticata molto escludendo simbol of life, ovviamente.

Le musiche si mantengono avvolte nell’oscurità, una condizione parzialmente sbilanciata solo da canzoni come "Isolate" e "Self Obsessed", due tra i pezzi più "fisici" dell'album, in cui le atmosfere opprimono anziché deprimere. I riverberi gotici vengono riscoperti con il singolo "Erased", grazie soprattutto al notevole contributo della voce femminile che echeggia pura e limpida, in contrapposizione a quella grossa e talvolta inquietante del singer. La qualità si conferma con la solenne "Two Worlds", un vero monumento all'apocalisse, o ancora nell'ottima "Perfect Mask", di certo il brano più contorto, enigmatico e psicotico.

La cadenzata "Mistify" attenua la potenza a favore della melodia, ma continua a mantenere intatto il perfetto spirito decadente, una tendenza delineata a pieno nella successiva "No Celebration", gelida e sconfortante.

Si giunge infine alla perla nera conclusiva. "Channel For The Pain" apre un vero e proprio fiume di rabbia che scorre impetuoso e senza argini, che trascina con sé, nella sua furia, sofferenza e alienazione, sino alla fine.

Così si erge "Symbol Of Life", un lavoro che, pur non avendo lo spessore ed il fascino intramontabile di "Draconian Times", ricrea una verità in cui non si vede mai la luce, ma si schiudono gli occhi alle tenebre.

 

"...The times I've fallen... The times I've failed..."

voto 8. Dany75

Commenti: 2
  • #2

    ArabZaraq (giovedì, 26 dicembre 2013 10:08)

    Bell'album!

  • #1

    sharkattak (lunedì, 23 dicembre 2013 21:16)

    grandissimo lavoro concordo con la rece. gli ultimi lavori sono deludenti a mio parere

L’ennesimo album di metallo che non ti aspetti, che non segue schemi, che travalica i confini e che, ascolto dopo ascolto, ti tira a sé,  ti ammanta nella corposità di metal, arte psichedelica e tanto progressive. Il viaggio – un’ora e dieci minuti tutta da scoprire e assaporare ascolto dopo ascolto – inizia con “Thoughts Like Hammers”, pezzo fra i più lunghi, che dà immediatamente l’idea di come il genio del gruppo sia riuscito a far suonare all’unisono influenze e partiture molto diverse fra loro. Segue la lunga malinconia di “Death In The Eyes Of Dawn”, caratterizzata dal lamento rabbioso di Grutle, ma capace di produrre anche vigore, seppur in maniera diversa rispetto agli esordi. Idem su “Veilburner”, progressivo e ritmato incedere verso l’etereo, con la voce di Larsen protagonista. Proprio quest’ultimo riveste un ruolo dominante nell’economia degli Enslaved moderni. Non solo per le melodie mai banali alla tastiera, ma soprattutto per i puliti arrangiamenti vocali dosati lungo le composizioni. Il miglior pezzo del disco è tuttavia “Roots Of The Mountain”: il vigore iniziale è preludio a un altro brano dalla lunghezza monstre (oltre 9 minuti) e dallo schema molto variegato, dove si alternano momenti ruvidi, permeati da Grutle alla voce e dalle chitarre graffianti, ad altri dove le sei corde si odono in lontananza (accade spesso sulle parti melodiche di “RIITIIR”) lasciando alla tastiera e alla voce di Larsen il compito di rubare la scena. Questa continua contrapposizione che spesso diventa miscela, rende imprevedibile ogni canzone dell’album.  Approdati su Nuclear Blast, maestri oramai nella produzione dei loro lavori, i norvegesi non sono assolutamente in imbarazzo nel lungo minutaggio, una caratteristica essenziale visto che non riescono a musicare secondo gli schemi precostituiti, specie poi nel piccolo periodo. Il sentiero verso l’ariosità musicale che perseguono o verso la rudezza di immaginari paesaggi nordici disegnati nella nostra mente tramite il suono aspro della voce di Grutle –  sempre più l’unico trait d’union con gli esordi –  ha bisogno di tempo per essere rappresentato. Ci si arriva man mano lungo ogni brano, seguendo diversi e mai ripetuti passaggi.  Dodici album, 21 anni di attività per una carriera che li ha visti sempre progredire seguendo le loro personali rotte musicali; un rinnovarsi e reinventarsi continuo fuggendo gli schemi noti ai più e cercando di allargare lo schema del metal dopo aver inglobato evidenti influenze esterne, facendo sì che il tutto suonasse omogeneo, per un risultato finale che altro non si può definire che vincente. Sono gli Enslaved e “RIITIIR” è l’ennesima gemma del loro repertorio. 

Voto 9 TWolff

 

Commenti: 3
  • #3

    ArabZaraq (giovedì, 26 dicembre 2013 10:08)

    Album stupendo. Di gran lunga migliore del penultimo. Non per niente questo dalla critica ha voti più alti rispetto a quello precedente

  • #2

    greatfaster (mercoledì, 11 dicembre 2013 21:53)

    grandissimo lavoro , ottima prova degli eslaved

  • #1

    rexor (lunedì, 09 dicembre 2013 21:47)

    grande album,grandi enslaved,.

I P.O.D. ("Payable on death") arrivano al secondo lavoro dopo che il loro debutto aveva fatto intravedere grandi potenzialità; bisogna dire che con questo album le promesse sono state mantenute appieno. "Satellite" è un vero disco crossover pieno di contaminazioni: rock, rap, metal, punk, si può veramente trovare di tutto. Preceduto dall'accattivante singolo "Alive" il disco si apre con la potentissima "Set it off" che subito mette in mostra le grandi capacità vocali di Sonny. Si passa poi per "Boom", che ti fa subito venire voglia di saltare, fino a canzoni come "Youth of a nation", il secondo singolo estratto dall'album, e "Without jah, nothing" l'inno punk dell'album (che vede la partecipazione di H.R. dei Bad brains). Insomma, un gran bel disco che si discosta dalla piattezza dell'attuale panorama nu-metal e che vede protagonista un gran bel gruppo. voto 8

Dany75

Commenti: 3
  • #3

    ponix (martedì, 26 novembre 2013 21:26)

    grandi pod , miglior album in assoluto

  • #2

    TWolff (sabato, 23 novembre 2013 06:45)

    Anche io ne ho cancellato uno ieri.

  • #1

    Dany75 (venerdì, 22 novembre 2013 23:11)

    il commento precedente e' stato cancellato, aveva allegato un sito porno, carissimo sky.nairun55 i tuoi problemi sessuali per carenza di pilu' valli a sfogare da un'altra parte,ci scusiamo per l'inconveniente, grazie

Dopo l'uscita del non molto fortunato ''the butterfly effect'',ecco il ritorno dei Moonspell,con un album,che a differenza di molti,giudicato poco coerente e privo di idee,a me personalmente,e'piaciuto moltissimo.L'album in questione e' '''Darkness and hope'''.Un lavoro che sa essere affascinante e coinvolgente,senza essere molto aggressivo,ma dai tratti come dicono alcuni ''''rockeggianti'''' se vogliamo definirlo cosi.Come dicevo prima,il suo predecessore,fu un lavoro piuttosto sperimentale,fatto da sound misti,definito un flop.Darkness and hope invece riscopre e raffina il sound del gruppo lusitano,mirando e richiamando le sonorita'passate.Se vogliamo analizzare le sue tracce,si sente chiaramente la loro evoluzione artistica al di la di ogni critica.Commento alcune tracce,che hanno colpito la mia attenzione particolarmente come ad esempio la bellissima '''''Nocturna'''''come descriverla,sensuale ed oscura,a mio avviso connubbio assolutamente perfetto,altro pezzo molto spiazzante ed innovativo e' ''''Devilred''''dalle influenze dark.Un album che vuole essere in un qualche senso,un punto di ripartenza,di accontentare fasce di fan dei primi Moonspell,che l'altra meta' piu'sperimentale.Tutto sommato un lavoro di grande spessore e di dedizione in quello che fanno,ben strutturato e prodotto. Voto 8  by  Rexor

Commenti: 2
  • #2

    softblake (lunedì, 04 novembre 2013 21:13)

    ottimo album concordo con la rece

  • #1

    TWolff (lunedì, 04 novembre 2013 05:48)

    Sono anche io dello stesso parere socio Rexor, i Moonspell sono una band a cui piace sperimentare e allo stesso tempo mantenere salde le loro radici. Di conseguenza appassionano sia i vecchi che i nuovi fan. Nocturna poi è all'apice della loro lunga carriera. Impossibile restare fermi mentre la si ascolta. Da avere per formare il triangolo con Butterfly effect e Night eternal.

Seguo i Therion da molti anni ormai; in quache altra recensione ho appunto affermato che è al secondo posto delle mie band preferite, al primo ovviamente ci sono i Lacrimosa.

Detto questo inizio col dire che, da Theli in poi (I primi quattro album sono belli ma  discostati dalla musica che intraprendono da Theli in avanti) Christofer ha saputo sfornare un capolavoro dietro l'altro. Ogni album si mantiene sulla scia del precedente ma con sonorità aggiunte facendo si che i rami dei Therion si espandano verso nuovi orizzonti.

Vovin e Deggial sono album di gran classe, ma devo ammettere che questo di cui vi parlo stasera, a mio parere, ha una marcia in più rispetto ai precedenti. Secret of the runes apre le porte ai successivi capolavori.

Sin dall'inizio possiamo notare un accattivante sonorità gotica che intraprende tutto lo splendore che sussegue durante l'ascolto. E' da notare come ogni strumento è innestato alla perfezione insieme agli altri. I vocalist sono davvero in sintonia tra di loro, cantano con una tale leggerezza che sembra stiano conversando. Molto dolce e soave sia il cantato soprano che quello lirico. C'è tanta di quella dolcezza nelle canzoni da far venire i brividi su tutto il corpo.

Il lavoro di batteria raggiunge quasi la perfezione entrando nelle proprie orecchie in modo non appesantito e molto gradevole da seguire. Così come le chitarre, suonano note brillanti ed amalgamate all'intero concept. Il tutto riuscitissimo, senza avere neanche un secondo di monotonia o noia. L'orchestra, con tutti i suoi magnifici strumenti, è molto ben assemblata alla band.

La cosa che stupisce di questo disco è che ognuno ha il suo giusto spazio per poter dare il meglio e, secondo me, ci sono riusciti tutti nell'intento. Nessuna pecca e nessun punto debole. Un'elegante suono che ti accarezza e ti rende puro nell'ascoltare tale magia. Perchè di questo è composto l'album: di magia malinconica e di quel gothic che ti carica quasi come se volessi essere in mezzo a loro. In Midgard la bellezza raggiunge un apice di emozioni favolose. 

Questa per me è una di quelle rare perle da avere nella propria collezione e consumarlo sino a quando l'udito non è sazio abbastanza da distaccarsi dall'ascolto. Una vera perfezione musicale di sinfonia, goticità dolcezza e metal al punto giusto. 

Da collezionista, da possessore di tutti i loro studio album, posso solo affermare con certezza che Secret of the runes, a distanza di tanti anni, mi riempie di emozioni come se lo ascoltassi per la prima volta. E ripeto: per me ogni album dei  Therion è un capolavoro, ma questo, in tutta sincerità, lo pèreferisco ai suoi predecessori. 

Musicalmente, in tutto e per tutto, il mio 9 è confermato dalla prima all'ultima nota, senza ombra di dubbio.

TWOLFF

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  • #1

    Chris (giovedì, 21 novembre 2013 14:04)

    Album divino!

Operazione "germanizzazione" riuscita ancora una volta per i gothic metaller tedeschi per eccellenza. 'Klagebilder', successore del disco reunion 'Revolution', ? infatti completamente cantato nella lingua madre dei Crematory (com'era gi? successo per 'Crematory' del '96), scelta che ai pi? potr? apparire come un azzardo bello e buono. Invece ? proprio grazie al ruvido cantato in tedesco che l'(ab)uso di elettronica e di certe andature Rammastein-iane ha un feeling pi? famigliare rispetto all'impatto frontale che si aveva con l'ascolto di 'Revolution'. Come potete benissimo immaginare, il gothic prima maniera di 'Illusions' ed 'Awake' ? sempre pi? lontanto dal Crematory-pensiero, oggi pi? che mai discendente legittimo di quell'evoluzione commerciale intrapresa con lo splendido 'Believe', e che ora vede in 'Klagebilder' un tassello pi? che gradevole di questo cammino. Dodici canzoni (tredici meno l'intro) semplici e squisitamente immediate, dove l'elettronica gioca un ruolo fondamentale nel plasmare un sound che per forza di cose paga pegno al successo planetario dei Rammstein, e qui il cantato centra relativamente poco. Per farsi un'idea, basta ascoltare episodi dalla portata industrial come 'Hoffnungen', 'Kaltes Feuer' e 'Warum', che riescono a racchiudere con grande professionalit? il tono solenne di 'Mutter' con l'andatura tipica del gothic elettronico pi? truzzo. Tutto gli si pu? rimproverare ai Crematory, ma non che non siano capaci di costruire canzoni dall'alto potenziale radiofonico, anche se dubito che i fan della prima ora possano gradire molto l'andazzo tenuto da Felix e compagni. Forse l'unico problema di 'Klagebilder' ? l'assenza sostaziale di quella hit, o capolavoro, in grado di rappresentare al grande pubblico l'intero platter, ruolo in passato ricoperto in modo encomiabile dalle varie 'The Fallen', 'Tears of Time', 'For Love' e perfino dalla recente 'Greed'. Questo comunque difficilmente rappresenter? un problema per quella fetta di pubblico che consuma un buon numero di cd al mese, e che non avr? grossi grattacapi nel trovare la propria hit personale rovistando tra le grintose 'Die Abrechnung', 'H?llenbrand', 'Das Letzte Mal' o tra alcuni dei brani vagamente old-style, sui quali spiccano le emozionali 'Kein Liebeslied' e 'Der N?chste'. Nel complesso migliore di 'Revolution', 'Klagebilder' ? un disco divertente e parecchio easy, per una band come i Crematory che sta evidentemente cercando di recuparare il tempo perduto e la notoriet? appannata dopo lo split post-'Believe'. Non so se la strada intrapresa sia quella giusta, ma almeno qua ci sono una cinquantina di minuti di buona musica, e di questi tempi non si butta via niente. voto 7

Dany75

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  • #1

    demonic (mercoledì, 16 ottobre 2013 02:43)

    molto bello direi melodico

Abbinare l'irruenza del thrash alla melodia tipica dell'heavy metal classico era naturale, in un'epoca in cui i confini tra generi erano ancora labili e indefiniti; i Metal Church erano tra quelle formazioni capaci di giocare a stretto contatto tra due filoni di successo, garantendo scorribande da headbanging, riff al vetriolo ma anche copiose dosi di musicalità, epica e attitudine, semplici e diretti nel mescolare energia, potenza, velocità. Siamo al cospetto di una delle band culto del thrash anni ottanta, una delle più sottovalutate colonne della musica heavy metal nel senso più generale del termine: la storia di questo ensemble originario di Seattle nasce nel lontano 1980, si getta con prepotenza nelle enciclopedie con un debutto terrificante come il disco omonimo che stiamo per recensire (1984) e prosegue con capitoli meno eccitanti quali Blessing In Disguise (1989) e The Human Factor, che aprono la durissima decade dei Nineties e precedono l'uscita di una nuova cospicua serie di full length che però poco aggiungono alla storia di una formazione che resterà eternamente grata alle fortune di quel debut eccezionale. Lo scioglimento dei Metal Church, datato 2009, è indubbiamente un avvenimento triste per ogni appassionato di musica dura: dopo nove studio album e due live ufficiali, l'ingrato music business ha costretto la Chiesa a chiudere i battenti. E allora qual'è l'arma migliore contro la nostalgia se non la riscoperta di quel gioiellino intitolato proprio Metal Church? rispolverate gli smanicati zeppi di toppe e tuffatevi nel moshpit, qui si vola negli anni Ottanta: sarà assolutamente difficile uscirne illesi, garantito.

 

La tracklist che costituisce l'essenza di questo piccolo gioiello é una sequela di classici, oltre che un manifesto efficace dello spettro sonoro di questa formazione: si spazia su territori tra i più disparati, correndo a diverse velocità e suscitando sensazioni ora rabbiose ed ora più sentimentali; punto di connessione rimane la grande energia, il pathos sempre presente e la soglia tecnica più che buona, distante da virtuosismi eccessivamente complessi e anche da caotiche sfuiate d'ignoranza. Questo riassume a grandi linee un disco completo, improntato sicuramente all'aggressione ma al tempo stesso dotato di parecchie frecce vincenti. Il compito di aprire la strada all'abrasivo attacco dei Metal Church spetta a Beyond the Black, che evidenzia immediatamente la notevole melodia delle chitarre e un ritmo inquietante, coinvolgente, crescente: ad un intermezzo oscuro e truce segue un'accelerazione improvvisa dall'impatto impressionante: ora si fa sul serio, ora esplode il thrash metal! Nel susseguirsi delle tracce si denota comunque una struttura tecnica più intricata rispetto al thrash immediato della Bay Area, solitamente poggiato su un unico riff delirante costantemente riproposto nel corso della canzone: il profilo dei Church prevede un raggio d'azione più ampio, che strizza sovente l'occhio al power grazie alle galoppate strumentali melodiche accostate al classico drum tambureggiante e ai ritmi serrati da puro delirio. Proprio la fluida melodia strumentale impreziosisce le lunghe parti di intermezzo che danno respiro alla voce acidissima di David Wayne; uno dei picchi del platter è indubbiamente Gods of Wrath, introdotta in un'atmosfera mesta e commovente da un arpeggio svilente: il ritmo lievita lentamente ma inesorabilmente in un'escalation melodica sostenuta da riffs potentissimi. Stiamo parlando di un classicissimo della band americana, che ribadisce il colpo in Hitman, riff impetuoso e scorribanda esaltante: le vocals trascinanti ed un coro marcio caratterizzano la stridente melodia thrash con retrogusto motorhediano, elemento che spicca forte anche in molti assoli [ascoltatevi quello di (My Favorite) Nightmare] e nella ritmica, isterica ma non un taglio molto vicino a quello della leggendaria band di Lemmy. Ciò emerge anche in Battalions, traccia nella quale ci si può stupire per un certo timbro vocale 'pulito' di Wayne, insolito ma pur sempre piacevole. Chiude il disco una devastante versione di Highway Star, cover dei Deep Purple rivisitata con accelerazioni, potenza raddoppiata, urla e toni esasperati.

 

Si può affermare che quasi tutti i pezzi di Metal Church siano significativi e dotati di una propria personalità che li rende imemdiatamente riconoscibili [i due capitoli meno esplosivi sembrano In the Blood e la già citata (My Favorite) Nightmare], con quell'ibrido freschissimo che mescola thrash, power e hardrock, la timbrica aspra di Wayne è quasi macabra, acidamente epica nel senso più oscuro del termine, le chitarre di Kurdt Vanderhoof e Craig Wells mettono in evidenza i cambi di tempo, le accelerazioni, le lunghe parti strumentali e la grandissima melodia abbinata magistralmente alla foga; assoli melodici prolungati e contorcenti completano l'opera, garantendo l'headbanging naturale per ogni metallaro che non può fare a meno di quel gusto forte di anni '80. PUNTO DI FORZA: la grande melodia powereggiante abbinata alla forza del thrash. PUNTO DI DEBOLEZZA: difficilissimo trovarne uno. CANZONI MIGLIORI: Beyond The Black, Metal Church, Gods Of Wrath, Hitman. GIUDIZI PARZIALI: vocals 9.0, sezione ritmica 8.0, sezione solista 9.5 

TWOLFF

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  • #1

    spown (mercoledì, 30 ottobre 2013 22:44)

    grande disco non puo' mancare nella propria bacheca

Dopo l'esordio estremo di "Wolfheart" e il gothic metal di "Irreligious" i Moonspell stupirono tutti con la pesante iniezione electro-dark che ha caratterizzato "Sin/Pecado", album che fece storcere un pò il naso ai puristi del metal.

Cosa aspettarsi quindi da "The Butterfly Effect", nuova uscita del quintetto portoghese quasi interamente composta dal polistrumentista Pedro "Passionis" Paixao (che dal vivo suona sia le tastiere che la chitarra)? Verso quali campi si muoverà la band portoghese che in 3 album ha dimostrato di sapersi destreggiare perfettamente in generi abbastanza diversi tra loro ma mantenendo una coerenza di fondo che ha contribuito a creare un vero e proprio marchio di fabbrica?

 

Basta inserire il disco nel lettore e lasciarsi avvolgere dalle trascinanti e potenti chitarre di "Soulsick", brano che apre un album e che da' proprio l'impressione che la band sa riuscita a scindersi in 3 parti e sia in jam session con se stessa. "Soulsick" sembra infatti la perfetta summa del sound dei 3 album precedenti. Pesanti riff di chitarra elettrica in stile "Wolfheart" si fondono con la sensuale oscurità di "Irreligious" e le tonalità electro-dark di "Sin/Pecado" in un modo strabiliante, senza lasciare in bocca quel brutto sapore di "Già sentito" come si potrebbe pensare. Intro molto Dark anche per la titletrack "The Butterfly Fx" ("FX", letto con pronuncia inglese suona come "Effects") che rende noto anche il concept principale che scorre attraverso i testi. Parliamo della Teoria del Caos sull'imprevedibilità di andamento di alcuni sistemi fisici che presentano condizioni iniziali molto simili tra loro, facilmente illustrata nel racconto di Ray Bradbury "Rumore di tuono" dove, durante un safari nel tempo, un cacciatore calpesta una minuscola farfalla causando cambiamenti immensi nel corso della storia. Musicalmente "The Butterfly Fx" è imprevedibile proprio come la teoria sulla quale si basa. Un Songwriting abbastanza estremo incontra sintetizzatori e un sound di chitarra più simile a quello di "Sin/Pecado" mentre Fernando "Langsuyar" Ribeiro si destreggia come sempre tra baritonali clean vocals e il suo personalissimo growl che viene spesso effettato dando al tutto una parvenza ancora più dannata. L'imprevedibilità è la base di "Can't Bee", un lungo intro da ballad gothic rock lascia spazio ad un intermezzo dove chitarre e archi spadroneggiano prima di tornare nei ranghi di una ballad che ci riporterà alla mente i Cure. Se pensiamo che il pezzo abbia detto tutto, aspettiamo il finale che riprende il suddetto intermezzo e lo evolve ancor di più, portandoci direttamente al devastante intro di "Lustmord", pezzo che mette in risalto il fantastico lavoro di Miguel "Mike" Gaspar che con le sue pelli rifinisce perfettamente una traccia che ci riporterà alla memoria il sound di "Wolfheart", non dimenticando però una certa dose di elettronica che, senza essere troppo invadente, impreziosisce il pezzo e aggiunge un'ottimo elemento al sound del quartetto lusitano. "Self Abuse" continua con il suo perfetto mix tra "Wolfheart", "Irreligious" e "Sin/Pecado" e ci permette di notare la particolarissima produzione curata da Andy Reilly. Il sound che riesce a dare all'album si muove tra Metal ed Elettronica con rara finezza e segna, secondo me, una piccola pietra miliare nel mondo della produzione e del sound engineering, unendo due generi di produzioni molto diversi tra loro in modo quasi perfetto. "I am the Eternal Spectactor" è un pezzo devastante dove a colpire, oltre alle violentissime chitarre di Ricardo "Mantas Amorim", e l'uso dei Sample e dell'elettronica che rende il pezzo ancora più pesante. Per compiere un piccolo balzo in avanti nel tempo (tanto, si parla già di teoria del caos) dimenticate quella Truzzata che risponde al nome di "Illud Divinum Insanus" dei Morbid Angel, questa è elettronica di qualità!

"Soulitary Vice" (i giochi di parole di Fernando Ribeiro sono sempre un capolavoro) è un piccolo capolavoro. Un mid-tempo con toni pesantissimi ed un sound oscuro e nichilista condito da un sapiente uso di elettronica e samples che ci mostra lo stato di forma di una band che fino ad adesso sembra non sbagliare un colpo. Fernando Ribeiro, con il suo fascino da vampiro di Anne Rice e la sua infinita cultura prende "Disappear Here" e la trasforma in un capolavoro di pathos e sensualità con una voce baritonale oscura e sensuale, esattamente come succede con "Adaptables" dove, dopo un intro che ricorda il gothic rock degli anni '80, scatena il suo personalissimo growl dando al pezzo un aura sensuale ma al contempo oscura e pericolosa. Arriviamo ad "Angelizer" e ci troviamo di fronte ad un vero e proprio capolavoro. Un intro alla Sister of Mercy ci guida ad una vera esplosione di violenza che, interrotta da un intermezzo più rilassato ci porta ad un finale da brivido con dove la violenza del metal estremo incontra un ottimo uso di elettronica e samples che mostra l'originalità di una band assolutamente geniale. "Tired" riprende il Requiem di Mozart e li mischia con solenni powerchord di chitarra e la meravigliosa voce di Fernando "Langsuyar" a fare da contorno.

Il finale è affidato a "K", un semistrumentale ai confini del rumorismo di ben 12 minuti che conferma una band in grado di compiere scelte coraggiose stupendo gli ascoltatori.

"The Butterfly Effect" non è assolutamente di facile ascolto, ma se avete vedute abbastanza larghe, amate il metal estremo e siete affascinati dall'elettronica e dalla musica gothic rock, "The Butterfly Effect" diventa un album imperdibile.

TWOLFF. 8,5

Commenti: 3
  • #3

    pentagram (venerdì, 15 novembre 2013 00:02)

    grandi moonspell inossidabile lavoro

  • #2

    sonya (martedì, 01 ottobre 2013 21:43)

    apprezzo molto questo lavoro concordo pienamente

  • #1

    rexor (domenica, 29 settembre 2013 14:31)

    lavoro molto controverso,ma dalle sfumature futuristiche alternate al gotich,e,oserei dire tribali.un album complesso,ma di grande impatto,ben curato e di grande produzione.voto 8 by Rexor

Carissimi visitatori nonchè amici di Horrorscape, questa sera mi cimento, facendo un tuffo nel passato, a recensire una di quelle band forse poco note al pubblico odierno. Alcuni di voi, quelli più giovani intendo, forse neanche conoscono gli Extreme. Eppure c'è da dire che questa band, ai suoi tempi, è stata abbastanza influente nel campo metal. C'è da dire innanzitutto che l'album in questione è datato 1990, quindi ben 23 anni fa, quando la musica metal era nel pieno della sua forse più totale creatività e inventiva. Non dimentichiamo che tra la fine degli anni '80 e dal '90 al 2000 sono state pubblicate quelle perle che resteranno nella storia del metal almeno fino alle prossime sette generazioni. Senza neanche stare a citare tutti quegli album che in quegli anni ci hanno e ci fanno ancora oggi sognare; quei vecchi 33 giri che ci davano tantissime emozioni e ci facevano scuotere la testa come forsennati. Quelle sonorità che ancora oggi ci accompagnano in questo lungo viaggio che è la vita. 

Torno comunque all'album in questione sottolineando comunque che la band si sciolse anni fa quindi inattiva ormai.

Comunque  rispetto al primo lavoro del gruppo, qui troviamo sonorità più spinte in cui Nuno Bettencourt riesce a trovare l'equilibrio giusto tra heavy metal efunk. Notiamo come ospiti speciali Pat Travers e Dweezil Zappa. Questo disco proiettò la band nella scena internazionale. Il disco è essenzialmente un concept album che mescola le sonorità tipiche del pop metal con frequenti incursioni di elementi funk. Il sound originale della band divenne un riferimento per il funk metal, oltre ad ottenere un enorme successo. Dalle melodie funk metal di Decadence DanceGet the Funk Out all'hair metal di It ('s a Monster), la band mostrò il meglio di sé con uno stile graffiante e unico. La ballad acustica More Than Words scalò le classifiche ottenendo il primo posto nella American Singles Charts. Il frequente passaggio del video del brano sull'emittente televisiva MTV ne assicurò il successo internazionale ed in futuro vanterà molte cover in tutto il mondo. Anche il singolo Get the Funk Out venne apprezzato e permise alla band di partecipare costantemente a tour di successo in tutto il mondo. Dalla maggior parte dei fans, Pornograffitti è considerato il miglior album degli Extreme, ed è considerato ancora oggi una pietra miliare per l'hard & heavy, la prima vera spinta verso il nuovo genere funk metal che prenderà piede in quegli anni. Insomma, quando avete voglia di ascoltare sonorità del passato soft e rilassanti, questo album fa al caso vostro. Merita una piena sufficienza in campo artistico. 

TWOLFF.

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  • #1

    Dark Lady (mercoledì, 11 settembre 2013 13:30)

    Bell'album

Salve a tutti. Oggi mi accingo a scrivere due parole su quello che, per me, è il migliore album di questa formidabile gotic band olandese. Almeno sino ad oggi.

Si aprono le danze con Mother earth, prima canzone dell'album, con un bellissimo inizio di pianoforte e violino. Per poi susseguirsi in un continuum di note esilaranti di accordi di chitarre. La voce di Sharon è davvero intensa e fresca. melodica e acuta.

Stupendo il coro centrale polifonico di voci maschili, in crescendo di intensità e di tensione, fino all’ingresso dei soprani, e al ritorno della melodia iniziale, su cui l’Headbang parte da solo. Indubbiamente la migliore canzone del concept.

Our Farewell” è la prima ballad dell’album. Semplicissima nella struttura, inizia su note di pianoforte e violoncello, per poi aggiungere gli archi nel proseguo. Sensualità e dolcezza sono le parole d’ordine. Inaspettato ma azzeccato il break di chitarra e batteria della seconda parte.

Caged” incalza su timbri più foschi. Canzone davvero particolare, soprattutto per l’impostazione vocale di Sharon, che si discosta dall’atteggiamento etereo tenuto fino a questo momento mostrandosi molto aggressiva. Parte centrale lirica e melismatica, seguita da un riff di chitarra quasi trash. Si conclude sul ritornello, con accentuazione delle tastiere epicheggianti.

Never Ending Story” è la seconda ballad, caratterizzata dall’ostinato circolare di tastiera, che si interrompe solo in prossimità del chorus. La varietà di idee nella sezione ritmica evita la ripetitività. Protagonista della canzone il basso, che, spesso sacrificato in questo genere musicale, funge qui davvero da base dell’apparato armonico. Da notare anche il duetto di voci femminili nella parte finale, in abile contrappunto.
I sette minuti abbondanti di “Deceiver of Fools” scorrono lisci come l’olio, passando dagli ariosi cori iniziali, al celeste duetto su accompagnamento di tastiera, alle maestose parti orchestrali. 

Il cd, infine, ci saluta con la mielosa ballad “In Perfect Harmony”, estremamente dolce e rilassata, come già il titolo fa presagire. L’influenza più evidente qui, incredibile a dirsi, è una certa frangia della musica New-Age (Enya in primis). Esperimento riuscito, non c’è che dire. Bellissima soprattutto la parte iniziale, con tema di flauto che ci trascina in sogno nei lidi più ameni, “in a world so far away…”.

Un ottimo lavoro che non dovrebbe mancare nelle collezioni degli amanti del genere.

Voto 9. TWolff

 

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Commenti: 3
  • #1

    Carl (sabato, 31 agosto 2013 19:06)

    Album stupendo ed inimitabile. Bella recensione, complimenti per il sito!

  • #2

    fmj (martedì, 03 settembre 2013 21:37)

    bel dischetto

  • #3

    defftons (lunedì, 23 settembre 2013 22:32)

    alla faccia del dischetto , ottimo direi

 

Come si fa a non amare questi mattacchioni olandesi? Questi simpatici ometti che fanno un disco una volta ogni tanto e non lo sbagliano neanche a pregare in turco? Mica facile, se dici di suonare death metal, eppure.. Già il precedente Triumvirate era un disco clamoroso (canzoni come Wrath Of The Ba’ath le sanno scrivere in pochi) ; non contenti, i nostri si superano e questo Tetragrammaton fa semplicemente paura. La miscela usata dalla band è letale, non fa prigionieri e risulta un vero e proprio macello sonoro che non conosce compromessi; mettiamoci anche il fatto che i The Monolith Deathcult suonano in maniera parecchio intelligente (merce rara) e il gioco è fatto. Stiamo parlando di un death metal orchestrato con rispetto alla tradizione ma arricchito di samplers, sintetizzatori e altre amenità; avvisiamo quindi il true di passaggio: qui si EVOLVE e lo si fa bene (tiè tiè tiè). Pronti? Che il massacro abbia inizio.

E’ una splendida giornata di "maggembre", la nuova frontiera del tempo pre-estivo in cui si fa l’albero di Natale, si sta in maniche corte di giorno per ricoprirsi col piumone la sera e tanti altri ossimori assortiti. Vi svegliate e dovete pulire la vostra camera per non rischiare che vostra madre vi esponga a pubblico ludibrio nel giardino di casa assieme ai suoi due alpaca; non avete però per niente voglia e mettete su un disco che vi è appena arrivato, tanto per ritardare l’oscura pratica. Quando parte Gods Amongst Insects, giustamente il ragno che abita nella vostra cameretta da due anni inizia a tremare, e a ragione: dopo una breve intro i The Monolith Deathcult lo costringono a traslocare a forza di brutalità, ritmiche impazzite e una furia demoniaca che funge da requiem per ogni singola ragnatela che voi avreste dovuto togliere. La produzione è potentissima e a livelli da denuncia, i sampler e le orchestrazioni si amalgamano in maniera impressionante e poco importa se il pezzo supera i dieci minuti. Ve ne state accorgendo? Il ponte centrale è quasi prog e dannatamente buono, per un po’ il ragnetto si affaccia con nostalgia credendo che gli abbiate fatto uno scherzo (in fin dei conti vi vuole bene), poi però vi manda a quel paese in maniera definitiva nel momento in cui l’onda d’urto torna ancora più brutale di prima. Si alterna a un momento onirico e cambia ancora umore rendendo più facile un terno al lotto che il proliferare di altre ragnatele nella vostra umile dimora. Presto ci si calma ancora con un riff epico e massiccio; le trame, gli assoli e gli intrecci chitarristici sono evocativi e ben strutturati.

La sezione ritmica è devastante e appaga in maniera clamorosa. Non c’è scampo, Human Wave Attack è un mid tempo che ha un tiro assurdo, qui si prende a piene mani dai Ministry, li si incazza oltremodo e si aggiunge ulteriore profondità; qualcuno vada a spiegare ai Morbid Angel come si suona in questa maniera. Bellissima la parte al quinto minuto in cui si riprende il tema principale e vengono in mente gli Strapping Young Lad con annessi goccioloni agli occhi; si rallenta poi copiosamente accompagnati da un growl cavernosissimo che accompagna fino allo sfumare della traccia. Drugs, Thugs & Machetes alza ancora di più il tiro e si rivela un vero e proprio capolavoro di musica estrema tamarra ma sopraffina: qui c’è di tutto e di più, da esplosioni qua e là a un fischietto da arbitro che ricorre prima delle ripartenze più brutali a una qualità di songwriting francamente invidiabile. E’ un pezzo velocissimo che vi farà venire il torcicollo a forza di dare testate all’armadio; il momento topico lo si raggiunge nel momento in cui vi suona il campanello di casa, aprite, trovate due testimoni di Geova e iniziate ad andare dietro alla canzone urlando “PURE BLOOD TRAITOR!!” facendoli autoflagellare per due settimane di fila con annesso sciopero di fame e sete in nome di un’onta che non verrà mai lavata. Quando chiudete la porta con un ghigno che va oltre il godereccio, trovate l’incedere marziale di Todesnacht Von Stammheim che con ordine vi sistema i libri e ne cancella la polvere dai bordi in maniera ordinata e metodica. E’ la canzone più sperimentale del disco e comunque risulta riuscita a causa di tutta una serie di fattori: in primis l’uso dell’elettronica (un plauso a Carsten), poi un gusto sopraffino a livello compositivo ed esecutivo. Niente è fuori posto, la band si diverte e diverte drogando l’ascoltatore colpo su colpo, coltellata su coltellata in un tripudio di brutale godimento e di altrettanto brutale coinvolgimento. Parliamo ora di Supreme Avant-garde Death Metal? Parliamone, perché il disco non cede di un millimetro rispetto a quando proposto finora: qui non esistono cali, non esistono filler e non esiste quell’antipatica parola chiamata noia. Rimangono riff taglienti, partiture a velocità folli e un paio di scope in preda a una crisi isterica che beatamente fanno luccicare il vostro pavimento scapocciando come se stessero vivendo la versione evil di Fantasia diretta da un Walt Disney riesumato e drogato. Qasr Al-Nihaya è l’ennesimo tritacarne in cui si sentono marcatissimi accenti agli Strapping Young Lad e il livello di distruzione non accenna a fermarsi nemmeno per sogno; completano il quadretto orchestrazioni orientaleggianti che fanno un figurone e il solito livello sopraffino in fase di composizione che ormai non stupisce proprio più. Chiudono il disco i dieci minuti e quarantatré secondi di Aslimu!!!: la lunghezza della canzone potrebbe far pensare ad una trollata in pieno stile Nile, qui però stiamo parlando di qualità decisamente superiore in tutti i campi (questo At The Gate Of Sethu se lo mangia a colazione, assieme ad una buona fetta di roba considerata death metal).

Nulla si aggiunge e nulla si toglie a ciò che abbiamo appena analizzato: se non vi piace il sound della band avete sicuramente già stoppato il disco molto prima. In caso contrario si aggiunge ulteriore godimento alle vostre orecchie martoriate in maniera adorabile e con un retrogusto romantico che mai male non fa. La vera trollata consiste infine nel vedere gli occhi di vostra madre al suo ritorno in casa mentre constata che ogni tipo di disordine/acaro si è auto-sfrattato per scampare al macello; poi la scena divertente che conclude il quadretto è composta dalle vostre parole sconnesse mentre cercate di spiegarle che tipo di detersivo sia Tetragrammaton. voto 9

Dani75 da metallizzer

 

Commenti: 4
  • #4

    Zainab Pollard (martedì, 12 marzo 2024 15:38)

    A nice blog

  • #3

    sonya (martedì, 17 settembre 2013 23:44)

    decisamente un bel cd , brutale a tratti melodico. da ascoltare

  • #2

    exterior (venerdì, 23 agosto 2013 21:36)

    un apoteosi che discone concordo con il voto

  • #1

    deon,, (venerdì, 23 agosto 2013 00:37)

    una vera arma distruttiva